Antonietta Benagiano – Fermare il tempo

Nei racconti della Benagiano, autrice dotata di sottile sensibilità e che ha il merito di farsi apprezzare per la vivacità immaginativa, scorgiamo una semplicità che colpisce per la sua forza e per la capacità di cogliere aspetti reali di una quotidianità affannosa e incerta.

Le emozioni che vengono fuori dai racconti, diversi tra loro, ma tenuti insieme da un unico filo conduttore rappresentato dalla difficoltà di vivere, rendono tutti insieme conto di quanto possa aiutare il nostro vivere se stimolati alla riflessione.

Nella lettura siamo guidati dalla vibrante mano dell’autrice che, con crescenti capacità liriche, ci accompagna attraverso tematiche complesse: dalla morte, all’amore, alla distruzione di mondi possibili (Escrescenza, Redeuntes, Irrefrenabile brama).

E il titolo, che dà anche il nome ad uno dei racconti, parla chiaro: questa raccolta è dedicata al tempo, e le storie che la compongono offrono al lettore il piacere di una scrittura scorrevole e ritmata, scandita con abilità intorno alla consapevolezza propria di tutti i protagonisti della mutevolezza e dell’incostanza della vita. Non è tanto l’intreccio delle storie a conquistare la centralità del nostro riflettere e a scandire la narrazione, quanto le inquietudini dei protagonisti.

Gli spazi dell’anima sono colti nella loro completezza e mettono in risalto un’umanità disillusa, affaticata dalle quotidiane perplessità, nella quale «bisogna proteggere anche i ricordi». Un raccontare nel quale si trovano certamente accenti di struggente malinconia (Fermare il tempo) e di rimpianto (Coincidenze) che costituiscono la ‘materia prima’ di angosciose domande ma che qui, sono come stemperate e ammorbidite. Forte di tale consapevolezza, l’autrice raramente si abbandona ad un descrivere puramente estetico; al contrario, anima i suoi racconti di impressioni, voci e metafore, tutte ispirate al tempo che incastona i luoghi della memoria e dell’immaginazione in parole che, come specchi bizantini, sembrano fatti di rame e di oro, restituendo così al lettore figure spesso inafferrabili. Allo stesso tempo, e con la stessa intensità, ci mostra un mondo che va in pezzi e, in questa sua frammentazione ne focalizza l’immagine veritiera.

Ci presenta dei personaggi che vivono le loro storie gli uni accanto agli altri, e che nel contempo, appaiono separati: una serie di riflettori costruiti per guardare il mondo dal suo interno, puntati su «enormi schermi sui quali scorre la loro storia».

Il tema della memoria – tanto caro all’autrice – non è mai solo accennato e, a seconda dei diversi racconti, diventa più manifesto; è recupero, attraverso luoghi e voci, di istanti di vita; ponte tra un passato e un presente altrimenti impenetrabile; attimo di dolcezza senza retorica o compiacimento malinconico: «…a volte basta fermarsi un attimo a riflettere, a ricordare l’amore che c’è stato per ricominciare. Quando c’è stato si può ritrovare. La preziosità dimenticata per lungo tempo improvvisamente riappare. Sì, vale la pena fermarsi, pensare al calore dimenticato… riscoprire noi stessi. Solo ciò che non è stato non si può ritrovare…».

In Voi non morrete ci dà conto della sua visione esistenziale e del complesso di angosce, sogni e paure, che sono parte integrante di una personalità che, nonostante il forzato distacco, mantiene saldo il rapporto umano e ideale con la propria terra.

Una terra dalla quale la protagonista si è allontanata, ma che pure continua a rappresentare un approdo sicuro cui ritornare, per non disperdere le proprie radici, punto di partenza su cui poggiare rinnovate certezze. La parola si snoda sofferta e immediata mescolando in modo del tutto naturale aspetti di sapore strettamente realistico con squarci ricorrenti di visioni surreali. Una raccolta, dunque, che offre molteplici spunti di lettura e che non deluderà chi nella scrittura cerca parole nuove per riflettere su interrogativi senza tempo e, forse, senza risposte.

Prefazione di Gaetana Rogato

Il tempo, la memoria, l’addio

«…a volte basta fermarsi un attimo a riflettere, a ricordare l’amore che c’è stato per ricominciare. Quando c’è stato si può ritrovare. La preziosità dimenticata per lungo tempo improvvisamente riappare. Sì, vale la pena fermarsi, pensare al calore dimenticato… riscoprire noi stessi. Solo ciò che non è stato non si può ritrovare…»: già, il tempo, la memoria, l’amore, l’inizio e la fine, l’addio, il ritorno… che cosa si potrebbe chiedere di più ad una raccolta di racconti, in tempi non solo, non tanto di ‘prosa debole’ (come si potrebbe chiamare riprendendo un sintagma da tempo vulgato in filosofia), ma proprio di ‘para-letteratura’ (come dicono i Francesi)?

Già, perché oggi, grazie anche ad ‘editori-non editori’, i tempi della letteratura – nel senso che dicevo supra: ‘para-letteratura’; o meglio: ‘anti-letteratura’ – li dettano testi (più che ‘romanzi’) che ruminano i tópoi del più bieco ‘televisionese’ (ci si passi lo spericolato neologismo), e per di più nel più trito linguaggio da rotocalco, o giù di lì: fotoromanzi, insomma, più che romanzi.

Ma la letteratura è un’altra cosa: la letteratura è, prima di tutto, una questione di stile, ovvero di lingua, ovvero di forma. La letteratura è inesausta innovazione sul filo che non si smarrisce della tradizione. Ogni opera d’arte, come dice Lausberg, è «una raffigurazione “mimetica” (che ricostruisce, generalizza, rende evidente ed eleva) dei contenuti che illuminano l’esistenza»: insomma, una gnoseologia estetica ed un disvelamento.

Già, l’arte, l’arte: la coscienza più alta e lucida della società, quella che un tempo era degli antichi profeti, moderna sacralità d’una società tragicamente segnata, come direbbe Benjamin, dalla perte d’auréole.

La letteratura, parlando da strutturalisti, è una parole che si fa unica e irripetibile allontanandosi dalla sua langue, ovvero dal ‘linguaggio stereotipico’ e fraudolento della Kulturindustrie: è, a dirlo in una parola, quella che i formalisti russi chiamavano literaturnost (e la letteratura, poi, non è forse sempre, alla fine, ‘forma’, in quanto sempre si esprime in una forma?). Così la letteratura esorcizza continuamente la piatta norma del ‘linguaggio di massa’ e la sua visione stereotipica del mondo; creativamente conduce contro di esse una ‘rivoluzione permanente’ – una rivoluzione che non è, non abbiate dubbî!, solo linguistica (il buon Gadamer: «L’essere che può venir compreso è linguaggio»): già, perché la ‘visione del mondo’ (la Weltanschauung, come amavano dire gli idealisti) è strutturata sulle base d’una sorta di post-kantiane categorie linguistiche.

La ‘società di massa’, ahimé, tende invece ad elaborare, appunto, un ‘linguaggio stereotipico’, ad imporlo rendendolo naturale attraverso quello che Barthes chiamava il «Grande Uso»; ma sì, la tragica assenza del ‘nuovo’ e l’iterazione avvilente del ‘medesimo’: non solo una negazione della vita, ma anche del suo heideggeriano corrispettivo dialettico: «lo stereotipo è questa impossibilità nauseante di morire», scriveva il maestro… Dove, chiedereste? Ma – facile dictu! – in primis negli spettacoli televisivi d’intrattenimento, contenitori senza fondo della barthesiana bêtise: non la qualitas, ma la quantitas massificata dell’audience…

Se, come ammoniva Löwenthal in anni in cui l’ ‘assassinio della letteratura’ non era stato ancóra compiutamente perpetrato, «l’intera teoria della moderna arte d’avanguardia […] è la sola riserva di genuina esperienza e perciò di cosciente opposizione che, nondimeno, è costantemente in pericolo di essere soffocata dai tentativi lucrosi dell’industria culturale, e nessuno è più consapevole di Adorno dell’enorme pericolo per la sopravvivenza di un’arte “auratica” (per usare un termine caro a Benjamin)»; se la letteratura è luogo di conoscenza, ma anche autocoscienza critica e bergsoniano «supplemento d’anima» nella moderna ‘società di massa’; se… se… be’, allora, cari lettori, tutto il resto non ha nulla a che fare con la letteratura, per quanti nomi eufonici od epici possano darle i cantori delle «magnifiche sorti e progressive» della ‘morte della letteratura’: è solo un prodotto commerciale, un oggetto di consumo, il benjaminiano «feticcio-merce».

Postfazione di Roberto Pasanisi

Visite totali ad oggi

Istituto di Cultura di Napoli via Bernardo Cavallino, 89 (“la Cittadella”) 80131 - Napoli tel. +39 081 5461662 fax +39 081 2203022 tel. mobile +39 339 2858243 posta elettronica: ici@istitalianodicultura.org

Realizzato da ADS NETWORK