«Bisogna che tutto cambi perché tutto rimanga uguale»

«Bisogna che tutto cambi perché tutto rimanga uguale»

Cosa è stato “Mani Pulite”?

L’applicazione della legge eguale per tutti, la legalità presa sul serio.

Mani Pulite è anche l’occasione quasi impensata di recuperare un deficit di arretratezza civile di un paese, la cui forma è quella della partitocrazia, degenerazione della democrazia, dove il privilegio e l’illegalità impunita dei potenti si sviluppa all’ombra del monopolio di politici di mestiere sulla sfera pubblica.

Mani Pulite è stata sconfitta a dieci anni di distanza, il craxismo, il liberismo di “trafficare” ha vinto nella sua forma più esplicita rappresentata dalla potenza del monopolio televisivo del Cavaliere.

Ma è davvero stata sconfitta del tutto?

Se il Cavaliere vuole ottenere tutto non può fermarsi. Non può tollerare magistrature e giornalismo autonomi.

Grazie al consenso ottenuto, egli è convinto che gli sia consentita ogni cosa, proprio grazie a quell’ampio consenso, puntando tutto sull’immagine di imprenditore (che disprezza la politica) e che vuole trasformare lo stato in azienda .

La sinistra d’altro canto (compresi Ulivo e candidatura Prodi) continua a lasciargli il monopolio dell’antipolitica (come quello dell’informazione).

Numerosi avvenimenti disegnano una logica di intervento precisa nel determinare evoluzioni e drastiche trasformazioni degli apparati della politica, del governo, della cultura e dell’economia che hanno lentamente accompagnato il declino della Prima Repubblica ed il suo lento scivolare nella Seconda, soprattutto nel periodo che va dal 1977 fino al 1993.

La fine degli anni Settanta, per un verso tormentato decennio da rimuovere, e gli anni Ottanta, palestra indiscussa del conservatorismo di marca rigorosamente socialista (la presa del potere craxiana) hanno a lungo covato la Seconda Repubblica prima di conferirle una vera esistenza.

Nel ’77, divampò la generalizzazione quotidiana di un conflitto politico che si ramificò in tutti i luoghi del sociale, esemplificando lo scontro che percorse tutti gli anni Settanta, uno scontro duro, tra le classi e dentro la classe.

Quarantamila denunciati, quindicimila arrestati, quattromila condannati a migliaia d’anni di galera, e poi morti e feriti, a centinaia, da entrambe le parti. Queste cifre non possono essere considerate sicuramente come il semplice risultato di una scommessa azzardata del sapere delirante di un gruppo di cattivi maestri innestato sulle tensioni nichiliste di strati sociali sottoculturati ed emarginati. Questo scontro fu piuttosto un appuntamento obbligato dalla precipitazione di contraddizioni sociali tra le classi che nella crisi generalizzata spingevano a un conflitto diretto e frontale per la rideterminazione di nuove regole di potere.

Contemporaneamente lo scenario internazionale muta in senso neo-conservatore: nel 1978, un anno indubbiamente fatidico, il polacco Karol Wojtyla, rompendo la secolare tradizione dei papi italiani, sale al trono pontificio; nel 1979 Margaret Thatcher diventa Primo Ministro in Gran Bretagna; nel 1981 Ronald Reagan è presidente degli Stati Uniti; infine nel 1982 Kohl è cancelliere nella Germania federale.

«Sull’Italia incidono più direttamente lo spirito battagliero di frontiera del nuovo papa polacco che tende ad ignorare il cattolicesimo democratico erede del Concilio e di Giovanni XXIII e l’offensiva liberistica, il rilancio politico americano che va sotto il nome di `reaganismo’. Le riconversioni industriali, collegate ai processi di mondializzazione e finanziarizzazione delle società capitalistiche più sviluppate, convergono col ristagno meridionale, con l’emergere e il potenziamento di nuovi gruppi imprenditoriali e finanziari, con la riduzione del proletariato di fabbrica, con la crescita del terziario e dei ceti intermedi».

Intanto Bettino Craxi era arrivato alla direzione delle segreteria del Psi nel 1976 alla testa di un gruppo di quarantenni covati dallo stesso movimento del 1968. Formatosi nell’Unione Goliardica italiana, fu luogotenente di Nenni nell’ala autonomista; sua essenziale preoccupazione politica sarà quella di configurare il partito come potenziale terzo partito in alternativa a Pci e Dc. Esposto alle seduzioni del potere, secondo quanto lo stesso Nenni aveva ampiamente presentito, il Psi si trasformò in breve tempo nel partito degli assessori e dei ministri. «Una volta rientrati al governo, i socialisti furono investiti dall’affare della P2 (ne facevano parte un ministro, alcuni dirigenti nazionali e diversi parlamentari) come del resto accadde per la Dc e per il Psdi. L’utilizzo dell’economia della corruzione, la pratica del sottogoverno passarono a uno stadio più avanzato».

La tecnica d’abbordaggio della cosa pubblica risulta relativamente semplice per le saldi doti di scaltrezza e cinismo del leader socialista, oramai alla guida di uno schieramento di cui controlla ogni ingranaggio (salvo poi dichiararsi all’oscuro di ogni cosa e riparare in Tunisia – fino alla sua morte – per sfuggire alla legge e ai processi italiani). Il periodo di recessione e di enormi tensioni sociali, che va dal 1978 al 1983 e il successivo rialzo borsistico – finanziario del 1985-’86 consentono a Craxi di puntare sui cavalli giusti con un atteggiamento di completa accondiscendenza ed avallo rispetto alle speculazioni economiche dei gruppi che si coagulano attorno al capitale imprenditoriale di uomini dello stile di Berlusconi e di rilanciare continuamente, sul versante della governabilità, il modello socialista come unica via per uscire dall’instabilità del quadro istituzionale.

Ed ancora, nel 1985 Francesco Cossiga è Presidente della Repubblica. I sette anni che attendono il bellicoso democristiano sono scanditi da due fasi sostanziali sulle quali si è detto molto; la prima, quella del silenzio, durante la quale si concluderà anche il governo Craxi e la seconda, dal 1990 in poi, che preluse alla vicenda Gladio e alle inchieste del pool milanese sulle tangenti.

Se è vero che in qualche modo i disegni della politica, specialmente quando non si vedono, esistono comunque, è altrettanto vero che Cossiga fu un autentico punto di svolta al vertice dello Stato per ciò che non disse e per ciò che ritenne in seguito di scaricare addosso a nemici ed amici (o ex-amici) attraverso dichiarazioni pubbliche, interviste ai giornali, invettive alla televisione. Il custode dello Stato di diritto della Prima Repubblica si trasforma nel suo liquidatore. E di liquidazioni Cossiga se ne intendeva abbastanza, dal sequestro Moro in poi. Le elezioni anticipate del 1987, alle quali il Presidente si adegua per il cosiddetto accordo sulla staffetta Dc-Psi, sono il primo avvertimento della ennesima incrinatura nei rapporti fra partiti o, diciamo meglio, fra macro-strutture di potere. Il voto conferma l’instabilità del dialogo fra forze di maggioranza; Psi e Dc ne escono ancora rafforzate, cala a vista d’occhio il consenso al Pci e per la prima volta i Verdi fanno capolino alla Camera dei Deputati. In Aprile del 1988 si insedia il pentapartito guidato da De Mita. In Piemonte, Veneto e Lombardia le prime leghe autonomiste riscuotono un discreto successo; sta cominciando a cambiare lentamente il panorama politico generale, anche se pochi ne hanno esatta coscienza. L’esperimento De Mita prosegue fino al 1989: Andreotti sostituisce il collega di partito con un nuovo governo a cinque. Con la caduta del muro di Berlino per un attimo l’Europa si arresta e sembra quasi che nulla potrà mai più essere uguale a se stesso.

A ridosso della scomparsa del confine tra i due mondi segnati dalla Guerra Fredda, il Pci inizia con la segreteria Occhetto la fase di autoanalisi con la proposta di rifondazione del partito. E’ il 1990. Le emergenze irrisolte degli anni Ottanta sono molte, l’intreccio tra Mafia e politica, affarismo spietato, grandi speculazioni, malgoverno attanagliano la già fragile architettura istituzionale italiana, corrosa dal di dentro e svuotata di ogni reale capacità di controllo.

Nel 1989 Giulio Andreotti vara l’ultimo triennio bianco in qualità di Presidente del Consiglio. Il 5 Aprile del 1992 le elezioni che sconvolgono la nomenclatura politica italiana: la Lega Nord di Bossi sfiora il 9% dei consensi (55 deputati); la Dc scende sotto il 30% e perde 32 deputati alla Camera; il neonato Pds, Partito democratico della sinistra, raggiunge appena il 16%; tiene ancora il Psi che cala al 13,2% con una perdita minima. Viene indicato Craxi come possibile Presidente del Consiglio ma il 17 Febbraio lo scandalo del Pio Albergo Tivulzio aveva ufficialmente inaugurato Tangentopoli e di lì a poco il consesso socialista sarebbe finito nella lista degli indagati dal giudice Di Pietro. A ridosso delle elezioni del nuovo Presidente della Repubblica Scalfaro, l’incarico di governo viene affidato a Giuliano Amato – è il 28 Giugno 1992 – fidato collaboratore di Craxi. Il Bettino nazionale si dimette dalla carica di segretario del partito dopo 16 anni di ininterrotto potere nel Febbraio 1993. Nell’ottobre precedente era caduto Forlani e nell’Aprile del ’93 è la volta della richiesta di autorizzazione a procedere per collusioni con la Mafia a carico del senatore Andreotti. (Oggi definitivamente scagionato).

Lo schieramento inventato da Silvio Berlusconi, unico vincitore nel guazzabuglio di smentite, denuncie, ritrattazioni e pentimenti costituito da Tangentopoli, vince le elezioni nel 1994. Durerà il tempo necessario a permettere alla Lega Nord di minarne l’equilibrio instabile e farlo cadere. La rivoluzione borghese mancata degli italiani scesi in piazza con l’imprenditore-governante si stempera nel gioco funesto del capitale finanziario che sostituisce Prodi a Berlusconi. E come tutti i rivolgimenti politici dimezzati, quello di Berlusconi crea ancora arretratezza e facili illusioni. Politica e società continuano a non incontrarsi, assuefatta com’è la politica all’economia e la società all’istupidimento della televisione. Eppure tutto era ormai cambiato, in Parlamento, nelle città, nei luoghi consacrati alla Prima Repubblica. Il 18 Aprile del 1993 il referendum Segni per l’introduzione del sistema maggioritario nell’elezione al Senato aveva ottenuto l’83% di voti favorevoli. La Seconda Repubblica, se così la vogliamo chiamare, entra in scena.

Lo scarso spessore della democrazia italiana, la crisi dei cattolici democratici, l’onda lunga della corruttela voluta ed imposta dal craxismo, la smobilitazione a sinistra con una costante crescita della litigiosità interna danno corpo ad una sorta di simulazione di guerra civile più che di rivoluzione. Scompare lo Stato democristiano, risucchiato nel vortice del socialismo riformista, ma senza alcuna riforma, che prelude alla socialdemocrazia.

Le elezioni ora avvengono all’insegna dell’illegalità più stucchevole, con la diffusione di gigantografie e manifesti, le campagne elettorali permanenti, la lievitazione incontrollabile delle spese. Ognuno si sente autorizzato a emulare e a superare gli altri in questa corsa all’esibizionismo, solo che la disparità di mezzi è così schiacciante che i candidati dello schieramento avverso possono fare soltanto magre figure.

Le leggi n. 55 del 19 marzo 1990 e n. 16 del 18 gennaio 1992 prevedono le preclusioni alla possibilità di candidarsi alle elezioni regionali, provinciali, comunali e circoscrizionali per chi è sottoposto a giudizio penale o a misura di prevenzione, ancorché non definitiva, per associazione mafiosa o per favoreggiamento, o per altri reati, ma alle elezioni politiche c’è il via libera alla candidatura di imputati per gli stessi reati e così sono stati candidati con la “Casa delle libertà” Marcello Dell’Utri e Gaspare Giudice, eletti a Milano e a Palermo. A Bari è stato eletto nella lista di Forza Italia Gianstefano Frigerio, successivamente arrestato per una condanna definitiva per corruzione, concussione, ricettazione e violazione della legge sul finanziamento dei partiti, reati commessi quando era segretario della Dc lombarda. Tra le aziende che avevano pagato tangenti c’era la Edilnord di Paolo Berlusconi. Dato che è vano sperare in codici di autoregolamentazione, non si dovrebbe disporre che, con i processi in corso, non ci si possa candidare alle elezioni politiche? La risposta è scontata: non lo si è fatto prima e adesso una tale richiesta sarebbe bollata come “accanimento persecutorio”.

La politica contribuisce a perpetuare e a sviluppare il fenomeno mafioso, assicurando l’impunità, che è una forma di legittimazione, facendo funzionare le istituzioni in modo da ospitare e favorire soggetti e attività direttamente o indirettamente collegati con i mafiosi, erogando il denaro pubblico ai mafiosi e ai loro alleati, criminalizzando le istituzioni con l’introiezione di metodi e comportamenti illegali e mafiosi. È un discorso che comincia da lontano e che finora non è stato smentito. Si è parlato di “legalizzazione della mafia” per la politica della Sinistra negli anni Ottanta del XIX secolo e si possono ricordare la repressione del movimento contadino con l’uso intrecciato della violenza mafiosa e istituzionale che ha spianato la strada all’affermazione del dominio mafioso, il ruolo della spesa pubblica nella nascita della mafia urbano-imprenditoriale come “borghesia di Stato” (senza il capitale pubblico e senza il rapporto con le istituzioni non sarebbero nati i mafiosi-imprenditori degli anni ’50 e ’60), il ruolo dei servizi segreti regolarmente deviati e delle logge massoniche come la P2, fantasma dissoltosi ormai nell’aria, in cui figuravano vertici istituzionali, le pratiche di corruzione sistemica che hanno coinvolto imprese, partiti e istituzioni. Tutto questo non rientra nel novero delle disfunzioni e delle deviazioni, ma si inscrive in una sorta di codice genetico dello Stato così come si è concretamente configurato.

«Secondo uno stereotipo corrente la mafia, per i suoi delitti che colpiscono uomini delle istituzioni, si porrebbe come un “antistato”; in effetti la mafia più che violare il diritto nega il diritto perché non riconosce il monopolio statale della forza, ha un suo codice di regole e una sua giustizia e usa l’omicidio come una sanzione equivalente alla pena di morte. Quindi essa è fuori e contro lo Stato, ma per le sue attività legate all’uso del denaro pubblico e la sua partecipazione attiva alla vita pubblica, la mafia è dentro e con lo Stato.

A questa dualità della mafia corrisponde una dualità delle istituzioni e dello Stato. In tutta la vicenda del movimento contadino, dall’ultimo decennio del XIX secolo agli anni ’50 del XX, con la parentesi del ventennio fascista, il monopolio statale della violenza, formalmente costituito, conviveva con la violenza privata mafiosa, funzionale al mantenimento dell’assetto di potere, e anche se le inchieste sui delitti politico-mafiosi e sulle stragi che hanno insanguinato il nostro paese, da Piazza Fontana alla stazione di Bologna, non dovessero arrivare a risultati giudiziari, come tutto lascia pensare, si può considerare un dato acquisito come verità storica che settori delle istituzioni hanno avuto un ruolo, quanto meno, nel coprire i responsabili e nell’ostacolare la ricerca della verità giudiziaria. È significativo che la Commissione stragi non sia riuscita a approvare una relazione ufficiale, per cui i membri del gruppo Democratici di sinistra hanno pubblicato una relazione di minoranza e il presidente della Commissione ha usato le pagine di un libro-intervista per dire che l’Italia ha vissuto una tragica esperienza di frontiera: una democrazia giovane e fragile con una collocazione geografica di confine e questo spiega tante cose».

Il 2001 è stato l’anno del terrorismo internazionale approdato nel cuore degli Stati Uniti, della guerra in Afghanistan che minaccia di non avere limiti di spazio e di tempo (come dice la stessa sigla prescelta: Enduring Freedom, dopo averne scartato un’altra ancora più “impegnativa”: Infinite Justice), del contagio epistolare di carbonchio preludio a una psicosi collettiva. L’umanità ha imboccato un tunnel di cui non si vede la fine e il terzo millennio, che era stato salutato come l’era della globalizzazione del mercato e della concorrenza, è cominciato con la globalizzazione del terrore e dell’insicurezza.

Per l’Italia il 2001 è stato l’anno della vittoria della “Casa delle libertà”. Avrà giocato la sua parte il sistema elettorale, ibrido prodotto dell’accoppiamento tra maggioritario e proporzionale, ma non si può nascondere che l’elettorato italiano ha scelto inequivocabilmente di portare al potere uomini e forze politiche che per la loro storia e i loro programmi non si prestavano certo a equivoci e a fraintendimenti. Com’è potuto accadere che buona parte del paese, dopo le stragi mafiose, dopo i maxiprocessi, dopo Tangentopoli, abbia votato per personaggi che erano protagonisti di vicende giudiziarie, vuoi di corruzione vuoi di mafia, ancora in corso? Gli italiani hanno dimenticato, hanno corta memoria o proprio quelle vicende hanno agito da incentivo a votare quei candidati e quei partiti.

Un prestigioso editorialista, preoccupato dello scarso credito di cui gode l’attuale capo del governo all’estero, così ha scritto: «A noi piacerebbe tuttavia che nel denunciare l'”anomalia Berlusconi”, la stampa straniera cercasse anche di spiegare ai suoi lettori perché tanti italiani, non necessariamente cinici e amorali, abbiano votato per lui. Potrebbe raccontare ad esempio che l’Italia è stata per molti anni pericolosamente vicina a una rivoluzione giudiziaria. Potrebbe scrivere che un gruppo di magistrati inquirenti (funzionari, assunti per pubblico concorso, privi di qualsiasi mandato popolare) si sono creduti autorizzati a comportarsi come un potere dello Stato e ancora non smettono di pensare che la loro volontà debba prevalere su quella del Parlamento. Potrebbe raccontare che le indagini giudiziarie hanno demolito soltanto una parte del palazzo politico e ne hanno profondamente alterato il funzionamento. Potrebbe dire che ciò non sarebbe accaduto se la sinistra, anziché trarre profitto da una immeritata impunità, avesse collaborato a restaurare l’ordine democratico. I suoi lettori capirebbero meglio allora perché molti italiani e lo stesso presidente della Repubblica, pur con grande disagio, abbiano finito per accettare la legge sulle rogatorie».

Se ci si prende la briga di effettuare un’analisi, tra i fattori che indeboliscono la presa dei partiti sulla società c’è naturalmente il nuovo medium televisivo, il frutto più vistoso della modernità.

E’ nota la diffidenza dei politici e, più in generale, degli intellettuali verso la televisione, accolta come un corpo estraneo, incompatibile con il contesto culturale italiano. Rimangono delle eccezioni gli uomini di cultura che intuiscono invece il suo potere di incidenza sulla società e il ruolo esercitato nel cambiare il volto dell’Italia da questo mezzo di comunicazione di massa.

Nel 1974, a vent’anni dall’avvento in Italia del piccolo schermo, sembrano ancora affermazioni quasi eversive quelle di Umberto Eco e di Pierpaolo Pasolini che attribuiscono alla televisione una parte importante di merito nella vittoria del fronte divorzista: la crescita civile del paese è anche il frutto della televisione, di tutte le trasmissioni televisive, persino delle più rozze e banali, come il popolarissimo “Rischiatutto” che ha inciso sulla quota di analfabetismo riducendola (Eco); che ha contribuito alla laicizzazione, seppure ebete, dei cittadini (Pasolini). Questa crescita civile, questa laicizzazione della società sorprendono i partiti che hanno affrontato la battaglia per il divorzio con cautela e paura, mescolate a sicurezza e ottimismo, da entrambi gli schieramenti, quello del no e quello del sì. Non sfugge loro il significato del referendum come banco di prova del cambiamento in atto nel paese; ma non appaiono assolutamente in grado di orientarsi sulla portata della trasformazione e sui fattori che hanno concorso a determinarla.

Il dato più sintomatico è però che in tutta la campagna referendaria non sia emerso dal dibattito politico – per lo meno quello registrato sul piccolo schermo – alcun accenno significativo alla televisione. Il ritardo nella scoperta della televisione come mezzo di comunicazione politica insostituibile, è emblematico dell’affanno dell’intero mondo politico ad interpretare la realtà della nuova Italia. Certo, questo ritardo si spiega paradossalmente proprio con la forza aggregativa che i partiti sono ancora in grado di sviluppare ben oltre il 1954 – anno dell’avvento della televisione in Italia. Rispetto agli Stati Uniti, paese pilota nella comunicazione politica televisiva, ma rispetto anche ad altre nazioni europee dove, da sempre, sono prevalentemente i media a svolgere la funzione di far conoscere la politica e di orientare l’opinione dei cittadini, in Italia questo ruolo appartiene ai partiti. La formazione dell’opinione politica e quindi la decisione di voto passano per lo più attraverso i loro canali, attraverso i meccanismi di appartenenza, di clientela, di scambio, attraverso la complessa macchina dell’educazione e dell’organizzazione. Lo stesso monopolio della Rai-Tv e il controllo politico sull’emittente relegano i nuovi media in un ruolo subalterno al sistema partitico, limitandone le capacità autonome di influenza.

Pur con questi limiti, la televisione sta però alterando l’intero quadro di riferimento, producendo nella società modificazioni tali da indebolire progressivamente il radicamento dei partiti. Quando si comincia a fare strada la consapevolezza di ciò, la reazione immediata è di limitare i danni aumentando il controllo dei partiti sulla Rai-Tv, resistendo alle pressioni di un allargamento del mercato televisivo, persino bloccando le trasmissioni a colore in nome di una visione austera e rigorosa contrapposta al lassismo di quanti inneggiano alla società consumistica.

I dati sulla occupazione dei partiti sono impressionanti: per le elezioni politiche del 1972 la Rai-Tv propone nel palinsesto un totale di 26 trasmissioni che salgono a 39 per le successive elezioni del 1976 e diventano 150 nel 1979 in occasione delle politiche e delle europee. Gli ascolti sono altrettanto stupefacenti: il primato viene raggiunto dalle tribune elettorali del 1972 con una media di 16 milioni di spettatori e una punta di quasi 17 milioni quando si trasmettono le conferenze stampa. La quantità della presenza in Tv non basta però a far ritrovare i consensi perduti; anzi, se si vanno ad analizzare i risultati delle inchieste promosse dalla Rai sugli ascolti e i dibattiti sulla stampa, gli indici di gradimento appaiono addirittura inversamente proporzionali agli straordinari dati sull’udienza. La curva, in rapida discesa via via che scorrono gli anni Settanta e aumenta la presenza dei politici in Tv, tocca il punto più basso nel 1979 quando da più parti si levano voci perché la Rai-Tv elimini le Tribune o gli spettatori spengano i televisori.

I responsabili delle trasmissioni televisive ne sono convinti: è arrivato il momento per i partiti di farsi carico, più di quanto non è avvenuto sinora, di quel tanto di professionalità e di conoscenza del mezzo radiotelevisivo senza di cui qualunque comunicazione non può avere udienza. I passi in questa direzione sono invece lenti, così come lentamente prende piede in Italia l’uso delle agenzie pubblicitarie e delle equipe di political consultants, di pollsters, di media e di direct mail consultants che negli Stati Uniti, ma anche in Gran Bretagna e in Francia, fin dagli anni Sessanta-Settanta preparano le campagne elettorali.

Sono i radicali l’unico partito che negli anni Settanta intuisce immediatamente le potenzialità del mezzo televisivo e alle sue peculiari caratteristiche si adegua con rapidità. E, naturalmente, non è un caso che sia un partito leggero, agli antipodi del modello del partito di integrazione di massa. L’assenza di un apparato costringe i radicali al massimo impiego di tutti gli strumenti capaci di supplire alle carenze dell’organizzazione e alla mancanza dei “luoghi” dove si costruisce e si forma l’opinione politica: così, sono i tavoli allestiti dai volontari sulle piazze e sulle strade a sostituire sezioni e parrocchie, garantendo la visibilità dell’azione politica; così è l’uso dei media, giornali, radio e televisione, ad assicurare un contatto diretto con elettori e simpatizzanti. Fin dall’inizio, dunque, ottenere uno spazio in televisione e sfruttarlo al meglio costituiscono i due obiettivi irrinunciabili di una strategia consapevole.

Dal 1954 al 1975, la televisione Rai (prima a canale unico, poi dal 1961 a due canali) fu l’unica che gli italiani potevano vedere, con qualche eccezione per gli abitanti di alcune zone che potevano captare emittenti straniere come la Tv Svizzera e Capodistria. I due decenni del monopolio Rai trascorsero in uno spirito dichiaratamente educativo. Si sosteneva che la televisione doveva educare il pubblico, doveva avvicinarlo attraverso i romanzi sceneggiati ai grandi classici della letteratura europea, doveva informarlo, ma con cautela, doveva intrattenerlo, con grande professionalità e tra i rigori della censura, doveva controllarlo e spingerlo con cautela ai consumi attraverso “Carosello”, la trasmissione pubblicitaria di maggiore ascolto, doveva persino insegnargli a scrivere. Il corso di alfabetizzazione Non è mai troppo tardi contribuì, come del resto gli altri programmi, ad unificare linguisticamente un Paese che, alla fine della seconda guerra mondiale, parlava ancora i suoi diversissimi dialetti, e non si capiva. Momento culminante e insieme terminale di questa fase della televisione italiana fu l’era Bernabei. Giornalista, grande conoscitore del suo pubblico, Ettore Bernabei diventò direttore generale della Rai nel 1962, grazie all’appoggio diretto di una potente corrente del partito democristiano. Avrebbe conservato la carica fino al 1974. Fu l’epoca della piena conquista della TV da parte del sistema politico. L’accuratezza delle trasmissioni era ineccepibile: costavano molto denaro e si vedeva.

A tal fine il metodo oggi più usato (in Italia dall’Auditel) è il meter, una macchinetta posta in un piccolo numero di abitazioni “rappresentative” che rileva il canale su cui il televisore è sintonizzato in quel momento. Si ritiene che studiando con attenzione i dati Auditel sia possibile capire con precisione quel che il pubblico più ama o meno ama dei programmi in corso. Accade così che autori, programmatori, e sempre più spesso i critici e il pubblico stesso si formino un’idea puramente quantitativa della fruizione televisiva: un certo numero di persone che sta davanti a un apparecchio un certo numero di minuti. Apparentemente, la televisione è “la radio più il cinema”, o “il cinema in casa”. Come il cinema racconta e informa attraverso immagini “riprese” dalla realtà; come il cinema movimenta o “anima” queste immagini ponendole in rapidissima successione. In realtà però esistono già nelle tecnologie dei due mezzi differenze che non vanno sottovalutate. Prima di tutto, il cinema può mostrare solo immagini che sono state riprese qualche tempo prima, per poi essere montate e riprodotte, mentre la televisione ha la possibilità di comunicare “in simultanea”: per questo il cinema propone soprattutto dei racconti, anche quando documenta fatti di cronaca, mentre la televisione tende a presentarsi come una sorta di conversazione ininterrotta con il pubblico. Inoltre, l’immagine televisiva, costituita da migliaia di puntini luminosi (pixel) è più imprecisa e insieme, forse, più penetrante di quella cinematografica. E i suoi colori sono radicalmente differenti, perché “contengono” in sé la luce. Lo studioso canadese Marshall McLuhan si basa su queste differenze per attribuire alla TV una funzione rivoluzionaria. Anche chi non accetta questa tesi deve comunque riconoscere che l’immagine televisiva propone allo spettatore un’esperienza diversa da quella cinematografica: forse più simile a quella che ci sta diventando familiare oggi con l’informatica.

Gli italiani si identificano sempre più nei loro vizi e così peggiora il modo di mangiare, di usare il tempo libero, di parlare.

Il modo di parlare degli individui è realmente mutato, e non solo dei più giovani (quelli che usano il telefonino per 8 ore al giorno e parlano via “sms”, utilizzando un vocabolario personalizzato, di frasi e parole troncate…).

Anche gli adulti, che prendono in prestito slogan pubblicitari, per far colpo sul prossimo, per risultare divertenti e alla moda. Usano un frasario ridondante tipico delle soap opera e delle telenovela.

Chissà se Groening, per esempio, quando ha dato vita ai Simpson ha previsto che sarebbero diventati un modello di riferimento?

Non sono solo gli americani ma anche gli italiani a riconoscersi nello stile di vita dei personaggi di questi cartoni.

Comperare e consumare è diventato un credo in molte famiglie. Non solo errori alimentari e troppa televisione finiscono per impoverire la qualità della nostra vita. I sociologi ritengono che il nostro linguaggio stia subendo una involuzione diventando sempre più povero.

In tale contesto un capitolo particolare merita la Fiction: «In un grande linguaggio (come può essere accaduto per la letteratura dell’800 superando il 900, oppure per il cinema) la testualità contiene una sua tradizione che è una tradizione estetica, formale, in cui le cui figure rappresentate sono legate agli stereotipi di quel linguaggio, stereotipi molto forti, che hanno la loro radice è proprio in una possibilità di rappresentare, attraverso l’immaginario, il tempo sociale. In periodi intensi di produzione sociale c’è una certa vicinanza tra la tradizione del testo ed i ritmi interni del linguaggio e le figure che metaforizzano il tempo.

Ad un certo punto gli stereotipi, logorandosi fanno prevalere una rappresentazione non relativa al fatto che quel linguaggio deve riuscire a far comunicare chi lo fruisce, il fruitore deve vedere percepire rappresentato il quel testo, qualcosa che ha a che vedere con la rappresentazione del tempo che gli appartiene il quel momento»

Si è di fronte ad una crisi generale della televisione: quella tradizionale ha fatto il suo tempo, quella nuova nasce sotto la cattiva stella del business, del mercato mondiale della pubblicità. Se ci trovassimo di fronte a mezzi di comunicazione di massa come la radio o il cinema, non vi sarebbero motivi per eccessivi allarmismi, ma la televisione è un medium particolarissimo, la sua penetrazione è totalizzante. Anche in conseguenza della crisi, ormai storica, della scuola, delle chiese, della famiglia, centinaia di milioni di giovani in tutto il mondo sono di fatto educati dai programmi della televisione. Il compito storico più urgente di fronte a una crisi strutturale della democrazia, intesa come partecipazione attiva e consapevole dei cittadini alle decisioni politiche, è quello di intervenire sull’opinione di massa per sottrarla alla sfera irrazionale della suggestione integrandola nella sfera dell’opinione pubblica, dove si esercita un’autentica capacità di giudizio. La televisione generalista è attualmente il più potente strumento di formazione dell’opinione di massa che opera in maniera martellante 24 ore al giorno su scala planetaria. Come è pensabile di abbandonare, alla loro condizione di gente, centinaia di milioni di cittadini per rinchiudersi nella camera asettica della televisione culturale tematica? Il compito degli operatori televisivi che hanno a cuore le sorti della cultura è ancora quello di sporcarsi le mani in questo dominio della suggestione, della fiction, dell’intrattenimento decerebrato, dei quiz, magari truccati, dei blob, delle pubblicità e delle televendite. Come nel campo dell’editoria esistono i libri, le enciclopedie e le riviste specializzate, così possiamo sperare che ci sia qualcosa di analogo nel campo della televisione e quindi che vi siano delle reti tematiche culturali. Ed è auspicabile che anche la RAI abbia tra le sue reti tematiche, una rete culturale.

Roberto Gorla così racconta su l’Unità: «Se cercate idee e pensiero, spegnete la Tv. E’ la radio la pubblicità da vedere.

Sarà per via del fatto che la televisione , nella tenzone fra Rai e Mediaste a chi tocca per prima il fondo, da tempo ha cominciato a scavare. Sarà per via del Verbo che venne prima di tutte le cose, comprese le immagini e rivendica la sua primogenitura. Fatto sta che la radio sembra tornata ad essere il fenomeno che fu agli esordi….forse perché meno strategico di altri mezzi , c’è più libertà, in radio e, di conseguenza, più talento e più creatività.

E’ curioso come il televedere, da sinonimo di libertà, si sia col tempo trasformato nel suo contrario: la teledipendenza. E la radio ne approfitta per lanciarsi alla riscossa e riappropriarsi di quel dominio dell’intelligenza dove la parola crea pensiero. Ma ve lo immaginate, in tivvù qualcuno che osi affrontare i rigorosi temi della grammatica e della dizione senza che venga giustiziato sul nascere a colpi di Auditel?

In questo residuo regno della possibilità d’espressione anche l’anima del commercio appare meno invadente, così da riuscire, sempre più spesso, sopportabile.

Le sue interruzioni, che si dissimulano fra le pause del discorso, acquistano un che di naturale. Lasciati alla libera ricostruzione immaginifica del cervello, gli spot si commisurano al gradimento di chi li ascolta e lì, accolti o rifiutati, senza l’alibi della patinatura o dell’effetto speciale ….…la pubblicità, in radio, è costretta a farsi largo a forza di idee e di parole»

«Gli schermi ospitano i prodotti, non ospitano il lavoro che li ha premessi. La fatica dei campi del lavoro, dimenticata sugli schermi – scrive Bruno Ugolini, sempre su l’Unità – Con le nostre campagne affollate di lavoratori indiani e africani che mungono le vacche o raccolgono i pomodori. Non è vero che sia finito il lavoro agricolo, così come non è finito il lavoro industriale, oggi le campagne sono piene di figure sociali nuove come i ‘terzisti’, e non se ne conosce nemmeno il numero esatto di quanti operano sulla terre, visto l’andare venire stagionale di donne e uomini, in maggioranza extracomunitari. Eppure sono figure sociali scomparse dagli schermi. Non si vedono più. Le ragioni sono molteplici. Il fatto è che oggi spesso (riepiloga Cofferati) anche nelle ambizioni della sinistra, il lavoro non rappresenta un valore capace di costruire l’identità di un persona. E molti hanno teorizzato la scomparsa del lavoro stesso. Le immagini hanno fatto propria questa tesi. Ci fanno vedere solo l’arcadia del Mulino Bianco, così lontana da sofferenze e gioie della realtà»

Ma tornando alla TV, per il filosofo tedesco Adorno, la televisione porta alla perfezione il processo di industrializzazione e serializzazione dei messaggi narrativi che secondo lui era già stato avviato dalla radio e dal cinema, considerati espressioni di un vero e proprio “sistema” capace di condizionare i sudditi del capitalismo fin nell’intimo. Il telefilm, scrive Adorno, è la forma estrema della ripetitività, mentre in quasi tutte le forme “classiche” della cultura di massa, dal romanzo di appendice allo stesso fumetto, il ‘sempre uguale’ si intrecciava con la presenza, comunque, di una ricerca della novità. La prevedibilità quasi assoluta dei programmi televisivi per Adorno è funzione diretta di una società nella quale la concorrenza ha ceduto il posto al monopolio e dove “ogni cosa appare, in qualche modo, predestinata”. Anche per questo la televisione è secondo Adorno il più potente diffusore di stereotipi e di conformismo: egli pensa infatti che la sua miscela di informazione e narrazione fantastica consenta di calare continuamente gli stereotipi stessi nel “reale”, dando loro la credibilità delle notizie e insieme la forza di suggestione dei racconti costruiti.

Pur partendo da premesse ideologiche molto lontane dalle sue (con il quale ha avuto anche diverse polemiche pubbliche) negli ultimi anni della sua vita il filosofo della scienza Karl Popper è giunto a conclusioni non molto lontane. La televisione è un grave pericolo per la cultura occidentale soprattutto perchè è diventata il principale strumento per la trasmissione di conoscenze, sostituendo la scuola e le altre istituzioni culturali maturate nei secoli: ciò è dovuto in parte alla pigrizia dei genitori, che lasciano alla TV compiti che un tempo spettavano a loro, in parte all’eccessivo potere economico dell’industria televisiva, in grado di condizionare governi e pubblico. Per Popper quindi è arrivato il momento di sottoporre la TV a un controllo strettissimo, tanto che egli propone una sorta di “patente” pubblica per chi vuole comunicare attraverso il mezzo. Questo è necessario per impedire che la sua programmazione sia affidata esclusivamente alla logica del mercato, e per consentire di utilizzarne le potenzialità educative come finora a suo vedere non si è mai fatto.

Secondo alcuni riferimenti storici, nel 1972 alcuni privati a Biella e poi in altre città italiane cominciarono a trasmettere via cavo in aperta sfida al monopolio pubblico. Nel 1974 una sentenza della Corte Costituzionale riconosceva il loro diritto. Successivamente, molte emittenti sfidarono il monopolio anche via etere, e nel 1976 la Corte diede loro ragione, riconoscendo la libertà delle trasmissioni private, purché locali. Nello stesso periodo venne varata la legge 103/75 che consentiva all’imprenditore che voleva installare una rete via cavo di trasmettere un solo programma. Ciò tolse, ovviamente, ogni interesse per il cavo e favorì un uso pressoché indiscriminato della diffusione del segnale via etere. Nacquero in pochi anni centinaia di emittenti televisive, spesso improvvisate.

Nel 1980 un imprenditore milanese, Silvio Berlusconi, dava vita alla prima rete nazionale alternativa alla RAI, una grande azienda televisiva commerciale che avrebbe presto ottenuto, attraverso acquisizioni, tre canali. Il nuovo network riuscì rapidamente ad aggiudicarsi una parte cospicua dei finanziamenti pubblicitari disponibili per la TV, e si arrivò così a una sorta di “duopolio” o monopolio a due. La situazione sarebbe stata “regolarizzata” solo nel 1990, con la norma che definiva regole per l’accesso all’etere; ma si sarebbe ulteriormente complicata con l’ingresso in politica proprio dell’imprenditore Berlusconi.

Oggi in Italia i problemi dell’assetto televisivo sono quasi indistinguibili da quelli complessivi dell’accesso politico.

Da anni l’opinione pubblica più avanzata reclama oltre a trasmissioni televisive di qualità, una migliore educazione, più spazi aperti alla cultura, ma i risultati tardano a venire. Non hanno saputo fare molto ne i governi di centro sinistra che di destra.

Resta l’iniziativa individuale di qualche insegnante, circoli, associazioni, musei.

La musica, l’arte, sono fondamentali nella formazione dell’individuo. Ma la musica, l’arte mancano alla nostra educazione, tardano ad essere giustamente qualificate come materie fondamentali.

Va comunque ricordato che a Roma, con un grande evento anche televisivo, è stato inaugurato l’Auditorium su progetto di Renzo Piano, per la precisione la Sala Santa Cecilia.

Una sintesi tra architettura e musica, 2.800 poltrone, un controsoffitto fatto di vele lignee rigonfie per migliorare l’acustica.

I maggiori rappresentanti del Governo hanno disertato l’invito, compreso il Ministro Urbani.

Giuliano Urbani dal 10 giugno 2001, ha preso in mano le redini del Dicastero dei Beni e delle Attività culturali. Un periodo turbolento e non senza momenti di tensione, esplosa con clamore quando Vittorio Sgarbi ha abbandonato la carica di sottosegretario tra chiassose polemiche. Urbani ha tracciato un bilancio di questi mesi di lavoro «svolto con umiltà e spesso con scarsa visibilità». E se difficoltà ci sono state e ci saranno, ha assicurato il ministro, non mancherà però l’impegno a «triplicare le risorse nell’arco della legislatura». L’obiettivo finale, ha sottolineato Urbani, è quello di rifondare e potenziare il ministero. Partendo, però, da una certezza che non mette certo il buonumore: «Il nostro patrimonio artistico – ha infatti spiegato il ministro – soffre una carenza di risorse finanziarie che grida vendetta: spendiamo da 2 a 5 volte in meno rispetto agli altri Paesi europei. Insomma, un disastro biblico». Già le precedenti amministrazioni hanno incrementato le risorse, passando dallo 0,16 allo 0,18% del prodotto interno lordo. Ma ancora non basta: «Puntiamo – ha ribadito Urbani -, nell’arco della legislatura, a raddoppiare o anche a triplicare questo impegno, raggiungendo lo 0,50% di investimenti pubblici, in pratica fra 10 e 12mila miliardi di vecchie lire, e mobilitando le risorse private con meccanismi di incentivazione fiscale». Per raggiungere Quali risultati concreti ha raggiunto, dunque, il governo? Molti, secondo Urbani. Sul piano dei restauri, sono stati terminati i lavori alla Torre di Pisa e alla Cappella degli Scrovegni (anche se questi ultimi, in particolare, non hanno mancato di suscitare polemiche da parte di alcuni esperti, come il nostro giornale ha documentato in maniera approfondita). Oltre 200 milioni di euro, ha sottolineato il ministro, sono serviti a finanziare 2.472 interventi. E poi, sono stati parecchi i musei varati o da varare durante la “nuova gestione”: dai Nuovi Uffizi al Vittoriano, dalla Grande Brera al Museo dello sport (che sorgerà al Foro Italico), dal Design alla Triennale di Milano a quello delle Forze armate, dalla Moda (sempre a Milano) agli Audiovisivi (a Roma), dall’Olocausto (Ferrara) alle Navi antiche (Pisa), senza dimenticare il “museo dei musei” virtuale, affidato ad un artista geniale come Carlo Rambaldi. Tutto rose e fiori, allora? Niente affatto. I piccoli musei secondo più d’uno sarebbero stati dimenticati: Urbani, compassato e con fare scherzoso, però risponde: «Niente affatto, abbiamo la fila fuori». Ma quest’estate, sia per i piccoli che per i grandi, non ci sarà l’apertura prolungata. Se dunque gli italiani (e i turisti!) non potranno visitare musei e gallerie fino a tardi e nei giorni festivi, forse potranno consolarsi con la lettura: in cantiere, infatti, c’è una nuova legge per la diffusione del libro, i cui dettagli sono in corso di esame. E chissà se il legislatore riuscirà a invogliare gli abitanti del Belpaese, tra gli ultimi in Europa per numero di libri acquistati e quotidiani letti, a recarsi più spesso in biblioteca o in libreria. È una bella sfida.

Molta carne al fuoco (e ancora polemiche) la riservano anche gli spettacoli e lo sport. Per quanto concerne quest’ultimo, Urbani assicura che sono in cantiere la revisione delle norme per la lotta al doping, la riorganizzazione del credito sportivo e il risanamento del Coni. Per gli spettacoli, invece, nominati i nuovi vertici della Biennale di Venezia, si punta ora a darle fondamenta più solide, con un ingresso più massiccio dei privati: «Così Venezia – ha detto il ministro – tornerà sicuramente ad essere la capitale mondiale del cinema (l’edizione di quest’anno è pur vero che ha avuto una conferma di successo, e che i nuovi vertici chiedono autonomia ed esclusione di ogni condizionamento politico)». Un settore, però, nel complesso da rivedere: Urbani non nasconde che sia necessario ritoccare i meccanismi del finanziamento pubblico del cinema. Ma intanto alcuni miliardi di vecchie lire- ha rimarcato – sono stati stanziati per restaurare pellicole antiche. Nominati i nuovi vertici delle fondazioni liriche, in arrivo c’è una nuova disciplina «che rivisiterà i meccanismi di finanziamento in rapporto al loro rendimento». Un’affermazione che giunge ad hoc mentre a Milano infuriano le polemiche sui tagli dei finanziamenti alla Scala e sulle candidature alla sovrintendenza. E il teatro? Dovrà essere promosso attraverso scuola e tv. E a proposito di televisione e palinsesti, il ministro ha ribadito di voler discutere con Rai e Mediaset la realizzazione di programmi che abbiano come oggetto l’arte e la cultura. Già. Magari anche per far conoscere gli scempi che continuano ad essere perpetrati ai danni del territorio: abusivismo edilizio, cemento selvaggio e discariche abusive che sorgono indisturbate a pochi metri dai luoghi più belli del Paese sono un cancro che andrebbe estirpato subito, e non c’è maggioranza che tenga.

Bisogna capire la cultura che sta dietro alla vittoria della destra italiana per combattere anche una battaglia culturale. Una discreta porzione di giovani e meno giovani si è disabituata al ragionamento politico, alla stessa partecipazione politica; le sezioni dei partiti sono ormai sempre più spesso ritrovi per attività ricreative e non luoghi per la discussione o la formazione.

La cultura dominante è caratterizzata sostanzialmente dalla cultura dell’avere, prodotto di una amplificazione di falsi bisogni. Il capitalismo non potrebbe vivere senza una indiscriminata, teoricamente illimitata, corsa ai consumi. Il consumismo è forse il volto più autentico della nostra cultura. Ogni esperienze di vita si trasformano esse stesse in consumo. Viaggi, vita privata e quanto altro. I modelli pubblicitari invitano talvolta davvero in maniera subliminale alla realizzazione solo dei propri bisogni e delle proprie aspirazioni. La cinematografia soprattutto d’oltremare ci abitua sempre di più ad accettare un mondo dove gli uomini sono in continua lotta, lotta per il posto di lavoro, per la carriera.

Bisognerebbe tornare a parlare e a riproporre una “questione morale”. In contrapposizione ad una cultura individualista, ed egoista, del benessere e della ricchezza, di modelli educativi e culturali non all’altezza dei tempi nuovi. Tempi chiamati ad una solidarietà globale, all’incontro rispettoso tra culture e religioni diverse, alla solidarietà economica e non allo sfruttamento di una minoranza ricca ed egoista contro una maggioranza di uomini resi poveri, spesso disperati e senza futuro.

Dice Jeremy Rifkin: «La qualità della nostra vita dipende più dalle relazioni interpersonali che dall’efficienza del governo o dell’economia (a che serve avere un’economia efficiente e un potere giusto se poi il nostro vicino ci dà una coltellata nella schiena?). Perfino la Banca Mondiale comincia ad ammettere che la società è importante come mezzo di sviluppo economico e di democratizzazione. Ma è ancora troppo poco. Economia e politica devono servire a far vivere meglio la gente.

Bisogna tassare la tecnologia a favore della società. Più lavoro fanno le macchine, meno senso ha tassare gli stipendi. Bisogna introdurre una tassa sull’aumento della produttività e destinarla agli stipendi per le persone impiegate nelle istituzioni del terzo settore. Dall’aumento della produttività devono guadagnare tutti qualcosa. Se un paese introduce una tassa sull’aumento di produttività o lo destina alla costruzione del terzo settore, gli altri lo seguiranno. Non si tratta di ricostruire sotto un altro nome lo stato assistenziale . Lo stato deve limitarsi a raccogliere i soldi le organizzazioni sociali devono spenderli.

La corruzione cresce quando la società è debole. In alcune città degli stati Uniti esistono già i cosiddetti “soldi sociali”, time dollars (dollari orari). Una persona riceve una carta plastificata dove vengono registrate le sue ore di lavoro sociale a favore di varie fondazioni. Il tutto viene immagazzinato in una banca del tempo sociale. Quando questa persona ha bisogno di aiuto, può pagare con i dollari orari Sembrerebbe una utopia, ma perché non devono avverarsi le utopie sociali, le sfide esigono risposte radicali. Il capitale sociale è alla base di tutto, non bisogna illudersi di risolvere i problemi solo con l’economia. Non c’è mai riuscito nessuno »

Il 17 febbraio 1992 con l’arresto di Mario Chiesa cominciava l’epoca di Tangentopoli, Mario Chiesa allora direttore – socialista craxiano – dell’ospizio “Pio Albergo Trivulzio” a Milano, venne colto con le mani nel sacco mentre incassava la tangente di una ditta di pulizie che voleva ottenere un appalto. Bettino Craxi – allora primo ministro – definì Mario Chiesa solo un mariuolo, sostenendo che aveva organizzato tutto da solo. Tutti i partiti ed i loro esponenti principali finirono sotto accusa per corruzione, concussione ad altri reati. Per un certi periodo magistrati ed investigatori divennero gli idoli della gente.

Il 23 febbraio 2002 la rivista Micromega ha organizzato al Palavobis di Milano una celebrazione del decennale, si sono presentate circa 20mila persone.

L’Italia appare divenuta una repubblica televisiva e la televisione di oggi cerca di ammortizzare Mani Pulite e Tangentopoli. Politicamente è cambiato qualcosa ci si chiede, dov’è la seconda Repubblica, forse non esiste, è solo una creazione mediatica.

Maria Paola Spagliardi
(CISAT, Centro Italiano Studii Arte-Terapia, Napoli)

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