Laggiò, Giada Primavera

Laggiò

 

I

 

Quando la lasciai per quella settimana in Sardegna, la mia casa profumava di frutta a pezzi sugati e latte di cocco.  Mentre Firenze bruciava dal caldo e il suo fiume dimagriva.

Laggiò mi aveva tanto pregato di accompagnarla e io mi decisi, feci in fretta la valigia piena di georgette e voile a disegni cachemere. Che, nonostante tutte queste pastellate leggerezze, era pesante.

– Buongiorno, n’do la porto?

Chiese il taxista.

– In via Pindemonte al 44. Grazie.

Laggiò…questa donna  felliniana, con la sua pelle rosa e gli occhi azzurri e tondi da piccina con quelle due pagliuzze più scure, come barche di caffè, nell’acqua. I capelli cenere dorata, il corpo generoso: nessuno poteva darle l’età che aveva anche se le sue ossa cominciavano a stancarsi. Ha un negozio di abbigliamento in Oltrarno Laggiò ma è una stilista. Non mi stanco mai di sentirla raccontare quella bella storia di lei che fa l’autostop col suo foulard annodato al collo nudo e la tutina sexy con le zip, in modo che il suo giovane amante la possa spogliare più velocemente. Si ferma una cabriolet guidata da Emilio Pucci e lei mi racconta di lui, le sue domande cortesi, quell’allure evanescente attraversata dal vento che da Bologna naviga verso Firenze, in mezzo ad un suono sordo e civettuolo di foulard su una cabriolet. Laggiò non ha avuto mai un piccolo nella sua pancia e non l’ha mai visto camminare, poi, fuori da sé. Questa è la ragione per cui veste ancora i suoi dieci anni, a fare di corsa le scale della casa sulle colline di Bologna, piena di pomodori e basilico, quando la mamma era viva, il babbo fuggito ed i fratelli costruivano capanne di cartone.

In un attimo, la mamma e suo fratello, quello adorato, quello che solo la capiva davvero, erano morti e, con loro, la sua voglia di fiorire secondo il tempo senza combatterlo. Come adesso. Era ancora figlia e sorella; mai madre mai sposa.

Tranne che per lui, Fiore, il vero motivo del viaggio.

 

–         Giò, non posso crederci! Ma sei ancora così! E la valigia?

        –    Ciao stellina! Lo so…Ti piacciono i capelli? Me li hanno fatti ora! Non è che sono troppo vaporosi? E poi aspettavo te per un consiglio su come mi sta questo costume.

(Laggiò era così che mentre ti parlava, piangeva e mentre piangeva, ti faceva una domanda di pura estetica e poi rideva e ti faceva una domanda sulle amiche e ti parlava del nipote e poi si commuoveva e poi ti parlava di tutto il sesso fatto negli anni Settanta.)

 

       –     Te l’ho raccontato di quando sono nata? Pesavo quasi cinque chili che mio fratello disse: Ma quella è la nostra? E perché ce l’hanno gonfiata? Che bello che era mio fratello… Beh, io anche…

 

–         Sei incredibile! Tra poco più di un’ora si parte!

–         Sì ma viene a prenderci l’Aurora e ci porta dritte a Peretola.

 

Laggiò ha il vezzo del ritardo, dell’ultima coccola, del consiglio esclusivo. E’ insicura, teneramente, che sembro io, sua madre. Aurora, invece, è puntualissima con la sua station vagon piena di peli di cane e gli occhi grigio-verdi che non si accendono mai, neanche quando sorride.

 

–         ….ma se ci sono dei vuoti d’aria?

–         Vuol dire che moriamo!

–         Non scherzare: io mi prendo la pillolina. Ma tu me la prendi la mano se ci sono i vuoti d’aria? Ti dispiace?

 

Beh, i vuoti d’aria ci furono e Laggiò si prese anche il braccio ma non mi diede nessun fastidio perché Laggiò è vera anche quando mente.

 

All’aeroporto ci aspettava un ragazzo tutto scuro con le sopracciglia che sembravano un evidenziatore a punta larga. Aveva i nostri nomi sul cartellone e ci portò alla Baja di questa Sardegna già corrotta.

Io, come ad ogni arrivo, mi sentivo quasi distrutta. Perché ho dei tempi tutti miei e troppo antichi, intervallati da pisolini necessari, abluzioni e suffumigi da grandama. Mah.

L’aria frizzava e quando frizza e io la sento, so già che c’è una promessa d’amore che si deve compiere. Non si sa se mantenere ma compiere sì.

Il ragazzo ci accompagnò nel nostro confortevole piede a terre ed io mi feci subito una gran doccia anche se non mi rilassai.

II

 

 

–         Ecco! Lo sapevo che si ammosciavano. Tesoro, vedi?

–         Cosa Giò?

–         I capelli… Ora viene Fiore ed io non so come vestirmi e i capelli…

–         Fiore? Ora?

Suonano alla porta.

–         Oddio, eccolo, è lui!

Fai finta di fare qualcosa come se fossi impegnata…

–         E perché, scusa?

–         Così…Non ti sembra più verosimile?

 

Stava arrivando la causa del viaggio, l’uomo oscuro, l’amante di trent’anni, il sogno, il solo sposo, l’unico padre per Laggiò. Io non ero curiosa per niente e non sapevo perché. Fatto sta che questo Fiore arriva persino in anticipo. Laggiò scappa in bagno ed io mi ritrovo come un’acciuga bollita, con occhi, gambe, capelli di zuppa, avvolta in un asciugamano picchè, con tutto il trucco piangente ad aprire la porta a questo caro fiore. Ero io la madre, no?

 

–         Buongiorno, non si spaventi per favore.

–         Ciao, tu devi essere… Laggiò mi ha tanto parlato di te.

 

E mi guardò stranamente, senza la tenerezza. Non mi piacque. Lui voleva capire chi ero e io glielo dissi come mio solito: diretta.

– Anche a me di Lei. Io le voglio molto bene a Laggiò: e lei?

 

–         Fiore!

–         Giò, finalmente!

 

Sembrava una scena dell’operetta anni ’40. Mentre fuori il tramonto rosso volteggiava le parole più dolci alle buganvillee e una leggera brezza stimolava l’endeorendedan dei panni stesi. Ma purtroppo l’aria frizzava e c’era di mezzo una promessa d’amore. L’aria frizzava ma io non la sentivo limpida. Però ero troppo persa nella felicità della mia autentica amica per pensare. Notavo la radiosità della sua pelle che era soleggiata di eccitazione appena avvertita la presenza di quell’uomo. Le labbra che si erano fatte naturalmente più carnose, la curvatura delle spalle e l’incedere seduttivi. Feci finta di andare in bagno e mi vestii per lasciar loro un po’ di tempo. Il tempo della malizia. Dopo venti minuti Laggiò mi chiamò.

 

–         Ma dove sei finita?!

–         Scusate ma ero impresentabile!

–         Ma via! Bellina come sei! Non è bellina!?

–         Molto.

       Beh, non ho fatto in tempo a prendere l’acqua per voi: venite al supermercato?

–         …Vai tu.

–         No no, preferisco andiate insieme.

–         No, io ho da disfare la valigia, dai!

 

Entrai su quella citroen rosso mattone con gli interni in pelle blu: sbiaditi. Un pochino sporca.

Appena chiusi lo sportello, sentii due occhi pieni di succosità violenta e grigia che volevano ancora un po’ indagare i pensieri ed i segreti di questa giovane amica inesperta, forse. O forse no.

Distolsi lo sguardo perché non mi piaceva tanto questo fiore; perché non era corretto guardarmi così; perché io, a Laggiò, voglio bene davvero.

 

–         Sai, io e Laggiò ci conosciamo da una vita. Credo che ti voglia molto bene…

–         Credo anche io che le voglia molto bene.

       –      Lo so

Rispose con un profondo silenzio cadenzato verso la mia scollatura.

 

E mi venne un movimento della testa ripido e lo guardai con occhi lenti e lui si sentì così tanto carogna che cambiò discorso. Per fortuna si arrivò presto al supermercato, con egual premura presi l’acqua, certa che mi riportasse a casa.

 

– Dammi del tu, così mi fai sentire vecchio! Laggiò mi ha pregato di farti vedere Santosch…

Ma io sapevo che non era così.

–         Scusi, (continuando a dargli del lei) preferirei tornare a casa, sono stanca.

–         Guarda, è proprio qui.

E, senza aspettare, senza ascoltare, con una sterzata che faceva pensare più ad un’erezione che ad un compito da assolvere, fece una lunga salita brecciata fino a Santosch.

Fiore è un noto architetto che nella roccia di una caverna ha creato una discoteca, più di trent’anni fa, prima delle veline, di Briatore e di Berlusconi. Quando la Sardegna era una vergine senza vergogna, coi seni grossi e lattosi ed il sedere ritto che si lasciava spogliare senza farsi toccare.

Santosch era una meraviglia quasi Daliniana e Dalì vi passò anche qualche sera lì, in mezzo ai principi e gli sceicchi, in mezzo alle modelle con indosso solo  caftani trasparenti e chicchi d’uva e piedi nudi e cavigliere di rubini e oro.

–         Devo prendere una cosa nel mio uffico-casa, vieni pure!

E i suoi occhi sudavano, desideravano come la sua mano che sfiorò la mia. E io volevo sparire. Perchè lui non mi era mai piaciuto anche prima di vederlo. Perché era ridicolo: con la sua coda grigia, la sua statura alta, il suo sguardo senza raffinatezza, le sue imbarazzanti collane etniche. Solo, con la sua sola ingordigia di possederne ancora un’altra su una stuoia di canapa fresca e sporca, come lui.

 

–         No, grazie. Aspetto qui.

Mentre attorno passava qualche cameriere indiano che ridacchiava sotto i baffi e lui strizzava l’occhiolino. Questi sono i maschi, di questi bisogna aver paura, non degli uomini. Per loro sei una pedina, una fetta di pane da tagliare e mordere e poi se ne taglia un’altra uguale; se sei un momento di un’ora, è un’ora qualsiasi; un racconto da taverna; un buco più stretto o più largo del precedente.

 

Il telefono trillò e mi levai dall’imbarazzo montando senza indugi in macchina, chiudendo lo sportello in maniera inequivocabile e costringendolo a riportarmi indietro.

 

–         E’ un dono conoscere persone come Laggiò.

Questo gli dissi prima di accomiatarmi e gli bastò per capire, in maniera definitiva, che quella specie di creatura pallida e fragile, era un’amazzone,  uno sciamano che danza nella luna, un giudice giusto dagli occhi di prato, una camelia  di ghiaccio che un bacio qualunque non scioglie.

Questo lo capì:  Fiore conosceva la vita, le donne, le femmine e la dignità. Altrui.

 

III

 

Ero bianca bianca, con un vestito ciliegia, delle decolté  e un grosso cappello a falda larga di lino e cotone. Mi scattarono diverse foto quando ero al bar col mio libro ed un pensiero d’amore verso un uomo che mai avrei avuto. Lasciai soli Laggiò e Fiore e quando tornai, l’aria era strana.

 

Sapeva di sesso. Ma era una puzza non un odore. Tutto era marcio di corpi marci, di falli grinzosi anche se lucenti e di vagine che accolgono con gli occhi chiusi. Carne di un amore al macero.

 

–         Che hai, bambina?

–         Nulla, nulla.

–         Sai, io e Fiore abbiamo fatto l’amore. Forse meglio di trent’anni fa anche se mi faceva male. Domani chiamo il massaggiatore, dicono che ce ne è uno bravo… Io e Fiore, quando ci siamo conosciuti, eravamo un sogno. Io, tanti anni fa, avevo un corpicino… e lui, che è del toro, mi travolgeva… Facevamo gli amanti e tutti davano più retta a me che a lei. Lei di sera non usciva mai ed io ero la vera regina, l’unica. Poi, di giorno, in spiaggia, lei mostrava a tutti questo bambino che aveva avuto ingannandolo, che poi lo ha costretto a sposarla e lei sembra una pescivendola…

 

Non chiesi chi era “lei”, sapevo chi era lui e chi era l’altra. L’altra era una mia amica vera che si stava mettendo nel suo ultimo pasticcio.

 

IV

 

Non c’era mattina che non iniziasse parlando di lui; la spiaggia era la stessa di trenta, venti, dieci, un anno fa e, come i granelli di rena fine che basciano [1] l’acqua salata, Laggiò metteva insieme i ricordi, li bagnava di gocce e sussurri, creava nostalgie che nascevano troppo rapidamente e, altrettanto rapidamente, morivano insieme ai sospiri. In quel periodo, coltivavo la teoria dell’emozione perfetta. L’emozione perfetta è quella condivisa. Purtroppo, però, succede che possa non essere partecipata e quell’emozione ti rimane, solo a te, da vivere. Può essere, allora, troppo grande e ti viene spontaneo di affibbiarla anche all’altro: Dio mio! E’ troppo grande per uno solo! E l’altro è sparito e tu lo perdoni fin quando non lo vedi di nuovo e costruisci la commedia di un amore imperfetto su emozioni che sarebbero perfette se non fossero le vostre. Come quando raccontiamo di noi, di com’eravamo e ci miglioriamo sempre un po’ nel ricordo non testimoniato. L’emozione imperfetta è l’illusione. Per sei giorni e sei notti vivemmo l’illusione.

La colazione, la spiaggia, i ricordi; il pranzo, i ricordi, i racconti; la cena e Santosch.

Finchè, la terza sera, le parlai.

 

–         Senti, sarà il caso di andarci anche stasera a Santosch? Magari facciamo una passeggiata o prendiamo un taxi e vediamo qualche altra cosa, facce diverse…

–         E no! E se arriva Fiore?

–         Se arriva Fiore e poi non si ferma a parlarti perché ha da fare, non è peggio?

Cercai di metterla meno crudele possibile.

–         No, perché io lo amo così tanto che mi basta vederlo per stare bene. Tutto il resto non mi interessa.

A parer mio, crudelmente, le cose stavano così: il fiore si era fatto una molle scopata che gli era dispiaciuta perché la carne era mesta e lui vizioso e, in cambio di un lavoro estivo, avrebbe potuto avere ben altro. In più, non si era potuto fare nemmeno la giovane amichetta che se la tirava con regalità. Quindi, al diavolo il tempo passato, le nostalgie, l’affetto, l’amicizia, l’amore!

Mi feci per altre tre sere quella salita drammatica perché consapevole. Per poi vedere la pelle radiosa de Laggiò ad un tratto buia se lui non si avvicinava, come un sussulto del costato e poi nulla, come una breve rianimazione e poi la linea immensamente piatta ed il rumore gonfio di quello che è finito e irreversibile. E mi toccava stare a guardare perché dire la verità l’avrebbe fatta soffrire e poi gliela dissi e mi strinse la mano lungo quella salita e con dolcezza mi guardò:

–         Lo so, sai, che hai ragione. Ma che ci posso fare? Trent’anni fa gli cantavo, dopo l’amore: fiore fa rima col cuore ed è un ten-ta-tore, senza pu-dore, fiore fiore.

E continuò questa nenia fino a casa: prima ridente, poi pensierosa, poi come assorta, poi fioca, poi pianse e mi abbracciò e io piansi con lei perché eravamo donne ed è giusto così. Non avevo in fondo anche io un pensiero d’amore, un’emozione imperfetta, per un uomo che non avrei mai avuto?

 

 

 

 

 

V

 

Era l’ultima mattina di mare prima della partenza, il giorno dopo.

In spiaggia si avvicina una signora sulla cinquantina: aveva una faccia a rana ed i capelli cotonatissimi, castani dorati. Il suo viso era totalmente inespressivo perché le labbra ridevano fissamente, gli occhi erano immortalati in una lunghezza ittica. Aveva un pareo elegante, forse di Missoni.

Solo quando la ebbi a pochi passi di distanza mi resi conto che era la signora che abitava in un bungalow a pochi passi da noi.

(Appena arrivammo, infatti, si profilò questa strana coppia: lei e il suo giovane marito. Ogni sera litigavano ad alta voce perché era gelosa. Poi, nulla. Una specie di gioco dell’amore violento. Lui aveva questi occhi stretti stretti di un blu profondo ed inaccessibile e ci osservava spesso dalle grate della verde inferriata che separava le due proprietà. Godeva di quel fisico asciutto dell’amante curato e di un sedere sporgente ma distinto che portava in giro con orgoglio insieme al resto dei floridi attributi che esibiva in uno slip di lycra blu. Dalla mattina al pomeriggio tardo).

 

–         Buongiorno.

–         Buongiorno, carina!

 

 

Quella sera, quell’ultima sera, anche Fiore commentò. Eravamo seduti ad un tavolo, tra le rocce. Laggiò, io ed un loro

amico comune, Nadal, che raccontava torbide novità da sottobosco. Laggiò indossava un caftano di seta azzurra, delle infradito cuoio vinaccia, lo stesso colore dell’ombretto, timidamente steso sulle palpebre. Una collana di lapislazzuli le corteggiava il collo. Ci avevamo messo un’ora e tre quarti a stabilire la mise perché “doveva avere un bel ricordo”… lui…

Mangiammo del pesce e lui si avvicinò al tavolo.

–         Come stanno le mie signore?

–         Ora che ci sei meglio.

Fiore aveva bevuto un po’, erano le due del mattino e la musica entrava dentro come una ladra gentile ma decisa. Volevo lasciarli soli, presi Nadal e ballai. Il vestito di seta mi si era attaccato tutto addosso, quasi fossi uscita dal mare con un peplo, un drappeggio di mille veli. Tornammo al tavolo.

–         Si vede dalle tette che pochi uomini ti hanno avuto.

Che meraviglia quando questo tipo di commenti non ti sconcerta più: rimasi impassibile e lo osservai con un disprezzo lungo. Ballarono abbracciati per qualche minuto. Lui si stufò presto e lei si accontentò di questa briciola per consolare le ore del dopo.

Il massaggiatore venne per cinque giorni e Laggiò per cinque giorni strillò. Il cancro le aveva preso le ossa: quelle stesse che le chiedevano di meditare. Per sempre.

Ma quella puzza marcia, quel pomeriggio a Baja, sapeva di lui, di lui solo, dei suoi sussulti senza amore, del suo possesso senza ascolto. Lui morì prima di lei e lei morì prima del tempo per immaginare di seguirlo e accontentarsi. Un’altra volta.

 

 

VI

 

Il negozio c’è ancora, le cose ci resistono ed è un’ingiustizia, una perversione. Tutto chiuso, con la saracinesca sbarrata e piena di debiti. Eppure, quando ci passo di fronte, sento la dolcezza morbida di quegli occhi timidi e tondi di piccina; il suono sordo e civettuolo di un foulard, su una cabriolet in mezzo al vento. Da Bologna a Firenze.
 

Giada Primavera

[1] Voce del verbo “basciare” ovvero baciare.

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