Steven Carter – Yes and No

Yes and No. The Meaning of Suffering in a Looking Glass Universe

Yes and No non è un libro semplice. Eppure, riesce ad essere gradevolmente comprensibile perché parla di un’esperienza comune a tutti gli uomini: l’incontro privato ed intimo con la sofferenza e la morte. Ciascun essere umano – questo suggerisce l’autore – riserva uno spazio racchiuso per il proprio dialogo con il Mistero: esperienza, questa, che segna la stessa identità umana ed ha il carattere di necessità, pur nell’impossibilità d’essere condivisa dai propri simili

Steven Carter, professore di Inglese all’Università Statale della California di Bakersfield (USA), è nato nel 1943 a Klamath Falls, nell’Oregon. Yes and No viene pubblicato a séguito dei due Premî “Nuove Lettere” vinti dall’autore nel ’99 e nel 2000.

Education: Ph.D. in English, University of Arizona-May, 1985; M.F.A. in Creative Writing, University of Arizona-December, 1977; M.A. in English, University of Arizona-August, 1968; B.A. in English, University of California, Berkeley-June, 1967.

Teaching Experience: Professor of English, California State University, Bakersfield, 1986-present; Senior Fulbright Fellow in American Studies, Uniwersytet Marii Curie-Sklodowskiej, Lublin, Poland, fall semester, 1991-92; Lecturer in English, California State University, Bakersfield, 1985-1986; Lecturer in English, University of Arizona, 1982-85; Graduate Associate in Teaching, University of Arizona, 1973-82; Instructor of English, University of Hawaii, Honolulu, 1968-71.

Publications (Books): Leopards in the Temple: Studies in American Popular Culture, Revised and Expanded Second Edition, International Scholars Publications, l999; A Do-It-Yourself Dystopia: The Americanization of Big Brother. University; Press of America, 2000; Expecting the Barbarians and Other Essays. Foreword by Arthur J. Spring. University Press of America, forthcoming 2001; Bearing Across: Studies in Literature and Science. Foreword by Burt Kimmelman, University Press of America, forthcoming 2001. Devotions to the Text. Foreword by Edwin J. Barton. University Press of America, forthcoming 2002.

Awards: 1989 Schachterle Prize awarded by the National Society for Literature and Science to “Maximus and the Quantum of Action: Fields of Spacetime and the ‘I’ in Charles Olson’s The Maximus Poems,” as the best essay in the area of Literature and Science; Senior Fulbright Fellowship, Uniwersytet Marii Curie-Sklodowskiej, Lublin, Poland, fall semester, 1991-92; 1999 “Nuove Lettere” International Poetry and Literature Prize awarded to “Democracy and Doublethink” by the Istituto Italiano di Cultura di Napoli, Italy; 2000 “Nuove Lettere” International Poetry and Literature Prize awarded to “The Two Infinites” by the Istituto Italiano di Cultura di Napoli, Italy.

Yes and No non è un libro semplice. Eppure, riesce ad essere gradevolmente comprensibile perché parla di un’esperienza comune a tutti gli uomini: l’incontro privato ed intimo con la sofferenza e la morte. Ciascun essere umano – questo suggerisce l’autore – riserva uno spazio racchiuso per il proprio dialogo con il Mistero: esperienza, questa, che segna la stessa identità umana ed ha il carattere di necessità, pur nell’impossibilità d’essere condivisa dai propri simili.

Ma Yes and No è anche un’opera che svela le difficoltà di vivere autenticamente quest’esperienza nella vita moderna, segnata dal regno del digitale e dal trionfo delle ‘protesi’ (computer, televisione, telefono) sostitutive del lavoro umano, della comunicazione reale e, dunque, della vita stessa. L’uomo moderno, chiuso in una narcisistica visione dell’universo, ritiene la Natura ‘specchio’ della sua umanità, illudendosi che niente abbia forma senza la sua esistenza. Questa la grande illusione dell’Uomo moderno.

Ecco come si apre il libro:

Philosophers, theologians and writers have different names for the unnameable, the mystery that appears to us in the many forms, or masks, of Nothingness. Ernest Hemingway calls it nada; Paul Tillich calls it the God above God; Leo Tolstoy simply calls it It. I prefer It. (p. 15).

Il mistero, irripetibile ed indescrivibile, della Morte («It»), è evocato, annunziato, poi esplorato in una molteplicità di mondi narrativi, brani di autobiografia, di critica e saggistica. Colpisce la semplicità, quasi la crudezza di quest’etichetta – un’impersonale terza persona neutra – il cui uso è suggerito dalla natura imperscrutabile del Mistero.

Al contempo autore, protagonista principale e voce narrante nella logica del testo, Carter riesce ad assumere di volta in volta il punto di vista di un filosofo, di un sociologo, dell’uomo comune. Non è un caso, dunque, che il saggio si apra con un capitolo fortemente autobiografico, in cui la voce narrante descrive i primi incontri con la morte del protagonista nella sua dimensione di bambino. Nella logica del testo, la descrizione della morte del padre prima, e della madre poi, assume un’importanza determinante: quasi a giustificare, in seguito, la ricerca da parte del personaggio adulto di una risposta ad interrogativi sorti sin dai primi anni dell’infanzia.

Di forte valore simbolico l’incontro tra Carter e il personaggio di Smokey, vagabondo che abita i boschi ed intrattiene i bambini del circondario con le sue fantastiche storie. In un contesto pittorico descritto tramite un sapiente gioco di luce-ombra, la voce narrante evoca l’opposizione vita-morte, ma anche razionalità-irrazionalità, materialità-spiritualità. Il rapporto di Smokey con Dio viene simbolicamente interrotto dalla presenza/interferenza del protagonista bambino nello spazio metaforico di un inferno (o meglio, di un vestibolo che porta all’aldilà della vita), dove Carter scopre, per un fortuito caso, la preghiera a Dio che il senzatetto aveva disegnato col gesso sulla parete di una buia galleria: «JESUS CHRIST HAVE MERCY ON MY SOUL» (p. 19). L’involontaria e casuale intrusione del protagonista nel dialogo di un’altra persona con It gli procurerà asperrimi sensi di colpa, sollevando in tal modo un mondo di problemi irrisolti con la propria coscienza.

Quello che sta sperimentando il Carter-bambino è anche la scoperta della propria coscienza sommersa e di paure recondite e profonde: solo la fuga verso la Luce – a dire, verso la Vita stessa – gli garantirà, almeno in apparenza, la dovuta sicurezza di sé e del mondo, restituendolo al regno dei vivi. Eppure, il tunnel della Colpa e del Mistero sarà d’ora in poi sì evitato, ma sempre presente, seppur relegato nello spazio angusto del proprio subconscio. L’intero libro potrebbe rappresentare il tentativo, da parte di questo bambino ormai adulto, di non evitare più il Mistero, quanto piuttosto di indagarlo in maniera matura e consapevole, nelle sue molteplici ed affascinanti forme.

Non credo, allora, che sia un caso che la voce narrante parli anche di una delle maggiori opere shakespeariane qual è King Lear, in cui viene inscenata la tragedia della sofferenza che porta a consapevolezza. La sofferenza non sempre è elemento negativo: al contrario, può portare ad un proficuo processo di maturazione, e ad un contatto più vero con la propria reale dimensione interiore.

Come avviene per il re folle della tragedia shakespeariana, l’amore potrebbe porsi come unico rimedio alla sofferenza, ma la difficoltà di comunicare, e la sostanziale solitudine dell’Uomo di fronte al Mistero, rende difficoltoso, in definitiva impossibile, un cammino regolare insieme ai propri simili verso una costruzione di sé coerente con la propria spiritualità.

Ed ecco che una risposta alternativa a schemi mentali egoistici, consueti nell’uomo moderno, sembra ad un tratto provenire da uno dei personaggi del libro. Si tratta del campione di tennis Arthur Ashe, colpito dall’AIDS a causa di una trasfusione: un uomo che aveva raggiunto le alte sfere nell’immaginario collettivo come rappresentante di un’ideologia terrena, celebrato nel mondo dei vivi come eroe positivo, che inaspettatamente diviene interprete di un’ideologia tutt’altro che individualistica. Carter ricorda l’episodio in cui, nel corso di un’intervista, un giornalista aveva domandato all’atleta se si fosse mai chiesto perché questa disgrazia fosse capitata proprio a lui.

When a reporter asked the dying athlete if he ever wondered Why me? Ashe replied that because he was hardly the only person in the world in such dire straits at that particular moment in time, the proper response was, Why not me? Ashe’s was a magnificent bearing witness that few men and women born and bred in a narcissistic culture such ours would appear capable of. (p.65)

La risposta dell’atleta appare straordinariamente rivelatrice nella sua semplicità: capovolgendo i termini del discorso, sposta l’accento dal personale all’universale nel chiedersi, piuttosto, perché NON a lui!

La dimensione solitaria e fondamentalmente egocentrica dell’uomo moderno occidentale può essere riscattata da un’umile accettazione della propria dimensione umana.

Questi sono solo alcuni dei tanti episodi estremamente significativi presenti nel tessuto del saggio, dove un’infinità di temi s’intreccia e si scioglie echeggiando da una parte all’altra del testo, in un gioco di richiami tematici simili a dei déjà-vù (come quelli descritti dall’autore all’interno dei segmenti autobiografici del testo, in corrispondenza con i suoi personali incontri con la morte). Gli episodi narrati appaiono disposti secondo un filo conduttore che porta l’autore ad inscenare costantemente un dialogo intellettuale molteplice, non solo con i grandi del passato ma anche con sé stesso e le proprie personali esperienze. La realtà, o almeno la sua rappresentazione attraverso l’atto della scrittura, sembra confermare le verità intuite, accennate, spesso indagate nel profondo dai genii del passato.

Questa ‘realtà’ a cui si accennava è quella personalmente vissuta dall’autore o a lui narrata da personaggi terzi: ma se, come sembra provare questo libro, per dirla alla maniera di Umberto Eco, ciascun ‘mondo narrativo’ ha la stessa dignità e ragione d’esistere di un qualunque altro mondo, perché il mondo del Lettore stesso, qui chiamato direttamente in causa, seppur con la sua muta presenza non dovrebbe essere assurto a pari dignità di quelli narrati…?

Ecco il significato profondo di un testo che si amplia e si estende potenzialmente all’infinito, coinvolgendo l’esperienza personale di chi legge e sottolineando il carattere universale di una necessità tipicamente umana: quella di essere ricondotti, seppur nel mistero e nel non-detto, attraverso una rottura con la propria quotidianità materialistica e individualistica, direttamente nello spazio prezioso della nostra stessa autenticità e spiritualità.

Prefazione di Franca Gerli

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