Venti di secessione

Venti di secessione

L’approssimarsi della cosiddetta “devolution”, e vale a dire di quel vero e proprio processo di secessione sostenuta con determinazione dalla Lega Nord e dal Presidente del Consiglio Berlusconi, rischia di determinare effetti drammatici per l’unità nazionale italiana ed, in particolare, per i quasi venti milioni di cittadini delle regioni meridionali.

La “devolution” cui si fa riferimento trae, in realtà, origine in Inghilterra e, recentemente, è tornata alla ribalta con il governo laburista di Tony Blair, il quale dopo il referendum che si è svolto in Scozia l’11 settembre 1997 ha approvato due provvedimenti che prevedono l’istituzione di assemblee legislative per Scozia e Galles denominate rispettivamente, “Scotland Act” e “Government of Wales Act”.

Ma la Scozia, così cara al ministro Bossi, può rivendicare antichissime ed importanti tradizioni nazionali riconosciute, tra l’altro, dagli stessi Inglesi fin dal 1885 con lo “Scottish Office”, sorta di ministero territoriale diretto da un Segretario di Stato.

Inoltre la “devolution” inglese ha, per di più, logiche e significati peculiari che la rendono non applicabile in Italia. Per esempio, essa fa riferimento ad un modello e ad un’idea di decentramento – il “self- government” – ben diverso da quello presente nella storia e nella Costituzione italiana.

Come può, dunque, la Lega Nord o meglio il “blocco politico padano”, spalleggiato dal Cavaliere d’Arcore, porre un’analogia tra situazioni così diverse come quella scozzese e la Padania che, altro non è, che una realtà immaginaria sia sul piano storico che geografico? La Padania fisica e la cosiddetta “nazione padana” non coincidono: i territori che sono geograficamente padani come il Tirolo meridionale, la Valle d’Aosta ed il Friuli, ad esempio, non fanno parte della “nazione padana”. Quindi, se pure la Padania è viva come espressione geografica, nasce morta sotto il profilo politico-culturale e non è valido appigliarsi ad artifici nominalistici perché questi ultimi devono indicare una comunità oggettivamente riconoscibile ed inter-soggetivamente riconosciuta.

Dunque, le motivazioni della “devolution” all’italiana vanno ricercate altrove e, più precisamente, nella vocazione separatista, antiunitaria ed antisolidale del “blocco padano”.

All’adesione iniziale a quel particolare modello di “federalismo integrale” che collocava Bossi e compagni sullo stesso terreno dei neoregionalisti europei, i quali enfatizzavano l’idea di popolo inteso come “völkisch gemeinschaft” e cioè come comunità etnica (etnicizzazione del conflitto politico tra il «gruppo celtico» e l’etnia contrapposta «latino-meridionale»), si aggiunge, successivamente, per la Padania, il concetto di “comunità d’interessi”, ovvero di comunità legata da fattori prettamente economici che necessita, per la sua attuazione, di una separazione definitiva dal Sud, ritenuto la “palla di piombo”.

L’attuale formulazione della “devolution” berlusconiana, che si concentra sull’attivazione delle competenze esclusive in materia di sanità, d’istruzione e polizia locale, dà l’avvio ad un processo molto più ampio, dichiarato esplicitamente dal ministro Bossi e che mira, tra l’altro, ad una nuova composizione della Corte Costituzionale (con una determinante componente regionale), alla creazione del Senato federale con la partecipazione dei Governatori delle Regioni, alla possibilità per un periodo di cinque anni, con leggi costituzionali, di formare nuove regioni oltre le venti previste dalla Costituzione (art. 131) senza il concorso di gravose condizioni di garanzia e al vero obiettivo principale: il “Presidenzialismo forte”. Le conseguenze dell’attuale disegno di legge che aggiunge un quinto comma ai quattro già presenti nell’articolo 117 potrebbero essere drammatiche per realtà a sviluppo debole come le regioni del Sud.

Infatti, dal punto di vista fiscale, le regioni più sviluppate, in forte surplus economico, grazie alle nuove prerogative offerte dal “federalismo bossiano” potranno alla prima occasione chiudere il rubinetto della solidarietà in nome del principio che le risorse vanno prima al proprio territorio e, poi, eventualmente agli altri.

La sottrazione d’ingenti risorse dal fondo di perequazione nazionale creato in favore delle zone più svantaggiate costringerà le regioni in deficit a ridurre la spesa e ad aumentare le aliquote d’imposta, con ripercussioni anche gravi, come nel caso dell’assistenza sanitaria.

Ma a subirne gli effetti negativi sarebbero, oltre l’intero Mezzogiorno- privato di linfa vitale- anche le cinque regioni a statuto speciale e le regioni troppo piccole, incapaci di realizzare una macchina amministrativa efficiente.

Il caso della “devolution”, infine, s’inquadra in quel preoccupante processo di controrivoluzione neoliberista che punta ad una radicale ed ampia epurazione della società liberaldemocratica dal maggior numero possibile d’elementi di democrazia, soprattutto sociale, introdotti dalle lunghe e dure lotte del movimento operaio, popolare e sindacale. Per i neoliberisti lo Stato va disaggregato negli attori individuali che lo esprimono e viene concepito come entità in balia d’interessi privati, esenti da gran parte dei vincoli tipici di un mercato competitivo.

Con questa valutazione lo “Stato esteso”, solidale e garantista diviene una sorta di gabbia di ferro che deve essere smantellato e ridotto a “Stato minimo” con limitate competenze. Tutte le forme di prelievo fiscale, secondo tali teorie, volte a sostenere politiche di Welfare (stato sociale), dalla sanità all’istruzione, dall’assistenza sociale alla previdenza, violando lo “stato di natura”, sono, in effetti, illegittime e violano i diritti di libertà degli individui.

L’imposizione fiscale progressiva, ad esempio, viene giudicata oppressiva ed incompatibile.

In una visione di tipo “socialdarwinista” il “mercato” provvede a stabilire la posizione sociale degli individui: chi non riesce ad affermarsi in tale luogo della “felicità” (teodicea della felicità) – in una sorta di giudizio di Dio- va considerato “fallito della vita” e, dunque, non merita aiuto e va abbandonato a se stesso.

Nei Paesi, come l’Italia, caratterizzati da forti squilibri regionali, la controrivoluzione neoliberista, con il conseguente vantaggio redistributivo a favore dei ceti più ricchi, passa attraverso la secessione delle Regioni più sviluppate o un federalismo così radicale da renderle del tutto autonome, principalmente sul piano fiscale.

Antonio Gentile

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