ICI Edizioni NOVITÀ Anno Accademico 2023–2024

Edizioni dell’Istituto Italiano di Cultura di Napoli
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NOVITÀ
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anno accademico 2023–2024

Istituto   Italiano  di  Cultura  di  Napoli
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Direttore editoriale: Roberto Pasanisi

distribuite da

Libri Diffusi – Terminal Distribuzione – Fastbook

L’Istituto Italiano di Cultura di Napoli (ICI) (www.istitalianodicultura.org; ici@istitalianodicultura.org), in collaborazione con la rivista internazionale di poesia e letteratura “Nuove Lettere” (da esso edita), pubblica cinque collane editoriali: due di poesia (entrambe dirette da Roberto Pasanisi: una intitolata Lo specchio oscuro, l’altra — di plaquette — intitolata Nugae); due di narrativa (una già diretta da Giorgio Saviane ed intitolata La bellezza; l’altra — di plaquette — diretta da Roberto Pasanisi ed intitolata Gli angeli); e due di saggistica letteraria (una già diretta da Franco Fortini ed intitolata Lettere Italiane; l’altra — di plaquette — diretta da Roberto Pasanisi ed intitolata Romanitas).

Le ICI Edizioni Elettroniche pubblicano tre collane di libri elettronici: una di poesia (Adriana), una di narrativa (La Cittadella) e una di saggistica (Neapolis).

In Catalogo ci sono oltre 300 titoli e tre periodici.

Il Comitato scientifico dell’Istituto è composto da: Steven Carter (docente di Lingua e letteratura inglese all’Università della California, Bakersfield); Massimo Cocchi in memoriam (professore di Alimenti e Nutrizione Umana presso la Facoltà di Medicina Veterinaria dell’Università di Bologna); Giovanni Dotoli (professore emerito di Lingua e letteratura francese all’Università “Aldo Moro” di Bari e docente all’Università della Sorbona di Parigi); Constantin Frosin (docente di Lingua e Letteratura francese all’ Università  “Danubius” di Galati; scrittore) in memoriam, Antonio Illiano (professore emerito di Lingua e Letteratura italiana alla University of North Carolina at Chapel Hill), Roberto Pasanisi (già direttore dei dipartimenti e docente, Polo Universitario “Principe di Napoli”; direttore dell’Istituto Italiano di Cultura di Napoli e di “Nuove Lettere”; scrittore; psicologo clinico, psicoterapeuta e psicoanalista); Vittorio Pellegrino (già presidente dell’Ente Provinciale per il Turismo di Napoli; neuropsichiatra, già Direttore del Servizio d’Igiene Mentale e docente all’Università di Napoli “Federico II”) in memoriam, Mario Selvaggio (professore di Lingua e letteratura francese all’Università di Cagliari); Mario Susko (già ordinario all’Università di Sarajevo; docente di Letteratura americana alla State University of New York, Nassau; scrittore) e Násos Vaghenás (docente di Teoria e critica letteraria all’Università di Atene; scrittore). Ne hanno fatto parte dall’inizio fino alla prematura scomparsa gli scrittori Dario Bellezza, Franco Fortini (già ordinario di Storia della critica all’Università di Siena), Giorgio Saviane e Nguyen Van Hoan (docente di Letteratura italiana e di Letteratura vietnamita all’Università di Hanoi).

 

 

 

Roberto Pasanisi (a cura di), «Le mattine sono ancorate come barche in rada». La poesia italiana contemporanea (Prefazione di Giulio Marra; Introduzione di Giovanni Dotoli; Postfazione di Aldo Pardi; Conclusioni di Mario Selvaggio)

 

Introduzione

Cercare, cercare ancora

Nel primo Novecento, l’avanguardia storica fonda la nuova poesia sulla sorpresa. Da Guillaume Apollinaire a André Breton, a Filippo Tommaso Marinetti, a Vladimir Vladimirovič Majakovskij, si leva un grido di modernità, tutto calibrato sul Nuovo, su una parola che deve scuotere, e affascinare per la sua novità fondata sul dare uno scossone alla norma. Occorre che l’essere si svegli dal torpore della storia, della parola sempre uguale, anche quando è il risultato del corso-ricorso vichiano.

Roberto Pasanisi e il benemerito mai lodato a sufficienza Istituto Italiano di Cultura di Napoli, da lui presieduto e gestito come un figlio amatissimo, hanno raccolto questo senso del Nuovo e dell’Avanguardia.

Sono sempre in prima linea.

E in un mondo, come quello che viviamo, senza valori dello spirito, della fratellanza e della concordia, ciò assume il senso della Verità cercata e ritrovata.

Per questo, mi ritrovo nel loro progetto, un lampo di luce vivissima che ci illumina, un bagliore di speranza che ci dona forza e energia del sapere e dell’umanesimo.

Questa stupenda antologia si comprende nella sua valenza solo se si parte da tali punti fermi. Non un’antologia qualsiasi, non un insieme di poemi e versi come tanti altri florilegi, ma un progetto, una visione, una rotta da seguire.

La rotta di Roberto Pasanisi e dell’Istituto Italiano di Cultura di Napoli è quella della grande Storia dell’Uomo e dell’Unità della Scienza. Quando leggo i loro programmi e le realizzazioni connesse, mi lascio prendere dalla vertigine del sapere, da quel senso di cultura che è stato il vanto e il punto fermo dell’Italia, e soprattutto di Napoli e del Mezzogiorno.

Appare in maniera solare che questa nostra terra è il Luogo della Filosofia, del Pensiero, della riflessione sul nostro destino, e intorno alla bellezza della vita, qualunque sia il suo cammino.

Tale premessa è indispensabile, se vogliamo nel cuore di questa altra antologia poetica pasanisiana. Il titolo dice tutta la saggezza programmatica di Pasanisi: «Le mattine sono ancorate come barche in rada», tratto da Eugenio Montale, uno dei massimi poeti del Novecento sulla faccia della terra.

Il mattino – il Tempo – è davanti a noi. Nella rada le barche, cioè le nostre vite, quelle degli uomini tutti del pianeta – e forse d’altri mondi – sono pronte a partire, ad affrontare dolori e gioie, quel percorso verso la felicità e il Nuovo tanto declamato dalla Poesia del mondo intero, in ogni epoca.

Le barche non sono ferme, ma in trepida attesa. Conoscono, prevedono il loro futuro, nell’alba del tempo, per andare oltre, verso il Luogo, l’Uno, la Terra che ci salverà.

È un grande segno di fiducia. È il senso forte della Bellezza che salverà il mondo, è la fede incrollabile nella cultura – che non solo dà da mangiare al corpo, ma soprattutto allo spirito, quello spirito da troppo tempo a digiuno.

«Volgo lo sguardo a me intorno» (Ausilia Clementina Bellomo), e incontro il saggio che mi parla, come un eremita del tempo che lascia il suo rifugio per ammonirmi con dolce saggezza. Questo eremita filosofo-poeta è proprio Roberto Pasanisi, uomo d’altri tempi nel Tempo senza tempo, quello della poesia, il solo che ci illumini.

Leggendo questa antologia, non solo ho conferma della forza della poesia italiana oggi, ma recupero il senso della libertà, e anch’io mi chiedo: «è così sbagliato amare tanto? » (id.). E allora, come Roberto Pasanisi, amo fino all’impossibile, perché il vero mondo è amore, fratellanza, dialogo, apertura.

La poesia ci ricorda che le differenze tra gli esseri umani sono solo artificiosamente create dall’uomo. Tutti siamo uguali. Di ogni colore e di ogni tempo, di ogni etnia e forma.

Anche «le grandezze vettoriali» (Giuseppe Cotellessa) sono con noi. Ci tracciano la linea «in modo approfondito» (id.). Il nostro Destino è «sulla rotta di Omero», «la vita è un tragitto d’amore» (mi autocito: il lettore mi perdoni).

«La via d’uscita» (Daniele Gandolfi) è nella fede, nella fiducia, nel rapporto con la Natura, che dalla nascita del mondo abbiamo profanato, e che finalmente cominciamo ad amare, anche grazie alla forza del pensiero di Papa Francesco. La nostra fragilità può trasformarsi in grandezza. Siamo come la materia più umile che contiene punti quantici misteriosi ricchi d’immensi tesori inesplorati.

E qui scopro un meraviglioso poeta: lo stesso Roberto Pasanisi, che gioca a celarsi, quasi umile paroliere, e che invece ha dentro di sé il fuoco dell’Essere, della Parola, del Verbo, della Verità.

E capisco le sue visioni.

Ascoltiamolo. Anche il lettore capirà, nell’entusiasmo della Parola, quella senza tempo, che è quella del cuore. Roberto Pasanisi parla infatti con il cuore:

Cambiare il mondo per sempre, momento dopo momento,

Là e allora nell’attimo che scorre nell’eterno.

[…]

E l’egoismo è il cuore ferino dell’etica capitalista

Gli angeli sono diventati ragionieri o contabili

Noi volevamo l’impossibile, come tutti voi

Ma ora che ne sarà mai di noi

In quest’età brutale e tempestosa?

[…]

Il mondo occidentale è un posto romantico:

o bruci nel foco che ti affina o marcisci ombra fra le ombre.

Ma a guarirti saranno le umilianti verità che l’Inconscio ti squaderna.

La bellezza giace sepolta negli abissi dell’oblio.

Devi smettere di giocare così a rimpiattino con la morte.

Era parlando di bellezza che l’avevo perduta,

Combattere con la cultura – «i classici» – sembra vano e perdente. Ma così non è, malgrado l’apparenza. «Il senso della vita» è chiaro:

Ma sono gli angeli a seminare in noi le promesse del futuro,

a far germogliare il perduto fiore della bellezza.

I nostri morti vivono in noi, noi li accudiamo come fiori di serra.

Sei stata tu il mio grande amore, il mio unico amore.

Pensaci in tempo all’eternità, prima che svanisca per sempre.

Gli angeli, la bellezza, la poesia ritornano con la loro umile forza energetica. L’eternità agognata da Arthur Rimbaud è in mare aperto, nelle sfide di una bellezza che ha cuore e sorriso, come il Poeta, quello vero alla Pasanisi, in cui mi riconosco.

Accogliamo dunque il suo grido:

Mai si è vista una bellezza priva di cuore così meravigliosa

come quando ci aggiriamo nei meandri oscuri,

nel dark side della metropoli e della sua giungla d’asfalto.

I barbari hanno già varcato i confini dell’Impero, la nostra inarrestabile décadence.

La bellezza è la luce che illumina le nostre vite oscure.

Ma solo se si fa della nostra vita una svolta decisiva si ha ragione di esistere.

Seguiamo queste preziose parole. Fissiamoci in quel tempo meridiano tanto caro a Albert Camus e al mio rimpianto amico Franco Cassano. Quel tempo è il nostro tempo, della riflessione per costruire, per uscire dall’oscuro verso la luce.

È la grande lezione di noi Mediterranei, di Napoli, del nostro Paese, del bacino lacustre che va dal Medio Oriente al Portogallo, sulla rotta di Aristotele, Platone, Cicerone, Virgilio, Averroè, Dante Alighieri, Giacomo Leopardi, Eugenio Montale, fino a noi, fino a domani, «nell’istante fugace del mistero del Tempo» (Mario Selvaggio).

Questa antologia ci offre uno straordinario messaggio, in questa epoca di brutalità che torna alla guerra tribale: abbiamo bisogno di poesia e di bellezza. Il solo futuro possibile è nella bellezza. La scienza, che sembra essere il centro del tutto, deve allearsi con la poesia e con la bellezza, per condurre a Dio e al nostro animo, a quell’io dalle infinite risorse.

La poesia è l’inutile che si fa utile e rotta di salvezza. Utile dulci. Con la poesia riusciamo a tornare al Rinascimento, a Leonardo da Vinci, poeta, scienziato, filosofo e inventore.

Possiamo anche noi essere sulla sua linea, se ci uniamo a questa filosofia.

Con Giulio Marra, altro finissimo poeta e costruttore di bellezza,

Vorrei lasciare

mura piene di felicità

Di voci, di canti

D’assordanti cantilene

E di lacrime, che si srotolano

Come disegni di un arazzo

di gigli e rose

E di risa come ali d’uccelli

Alle finestre del cielo.

 

«Cercare, Cercare ancora», grida Georges Perec (Beaux présents, belles absentes. Poésies, Parigi, Éditions du Seuil, 1994, p. 73).

É il primo punto dell’affascinante decalogo di Roberto Pasanisi: cercare all’infinito, come in una sinfonia. Dobbiamo essere al suo fianco.

Giovanni Dotoli

Università di Bari “Aldo Moro”, 14 ottobre 2023

 

Prefazione

Non è, credo, scorretto dire che la poesia italiana risponde alla situazione umana e psicologica del momento che stiamo collettivamente vivendo. È con sentita commozione che mi sono avvicinato ai molti e validi testi della Antologia curata dall’Istituto Italiano di Cultura di Napoli, testi nei quali un lettore si ritrova coinvolto e partecipe di sentimenti ed emozioni, oltre che di idee e proposte di vita. Oserei dire che sin dall’inizio non ho potuto non notare il carattere iconico di alcune immagini, una qualità persino arcaica che fissa figure nel tempo con l’auspicio di renderle durature? Le tematiche sono varie, si va dalla riscoperta della Natura che appare Madre, ma anche Matrigna, allo svanire del sentimento religioso tradizionale e al sentimento religioso che guida la vita, soprattutto allo scoramento provato per non essere in grado di recuperare la propria vita che si sente perduta, all’abbandono della propria terra d’origine alla quale però si tende come unico e sicuro porto d’approdo, alla tragedia della guerra ucraina, alla poesia impegnata che denuncia il materialismo della nostra epoca, alla ricerca della bellezza come punto di salvezza e di fuga dal materialistico (o dal materico di Michelino Fistetto) presente, in Poesia: «nell’afosa aria disumana/di questo mondo materico,/non sento,/e non dico più/ parole …!»; al sentimento d’amore che da un lato si cerca e si vuole scoprire e dall’altro si descrive nella sua fisicità come alternativa a un sentimento evanescente, alle intuizioni dell’haiku giapponese di Donatella Trotta, o alla enunciazione di concetti di fisica di Giuseppe Cotellessa, allo sperimentalismo grafico di Dino Rosa che si ritrova «Nel mare senza posa/l’Oceano nuovamente /mi ha risucchiato a sé/e al suo tormento», e nelle elaborazioni stilistiche di Riccardo Maggese.

Accennavo alla perdita e alla ricerca di una propria identità e, a questo proposito, rilevo nelle parole di Ausilia Clementina Bellomo alcune notazioni che mi hanno colpito e dalle quali, credo, ci sentiamo ideologicamente e sentimentalmente attratti. Versi nei quali è un leitmotiv ricorrente quello di una vita che si scopre perduta, di un sole che non porta albe felici ma «cupe ombre»,

la luce del sole nascente

portando con sé le cupe ombre, ricordi immemori,

di una vita non vissuta,

per sempre perduta.

È il pensiero che la vita sia stata irrimediabilmente perduta in qualche luogo e tempo che non si ricorda o si comprende, che ognuno di noi scopra di essere un «viandante smarrito» e che l’anima diventi un triste «luogo di solitudine». In questa situazione la speranza è l’ultima dea che lascia gli uomini davanti ad un «mare spumoso», che per sua intrinseca natura sfuma e si dissolve. È significativo che la poetessa ritorni sulla presenza del mare, un «essere» da cui tutto è dipeso e dipende, una sorta di divinità naturale alla quale si dirige la preghiera. È una religione «naturale» quella della poetessa che non a torto, mi sembra di poter dire, una religione secondo la quale siamo tutti pronti a riscoprirci esseri ‘naturali’ nel grande mondo che ci circonda. Un mare che non è solo però consolazione e speranza ma che si colora di tonalità problematiche, alle quali l’uomo finisce per soccombere. E dunque è la Natura Matrigna, come Leopardi descriveva? Si deve riconoscere che a quel mare, al quale tanta speranza viene attribuita, alla fine sia anch’esso, una realtà alla quale la «sofferente umanità soccombe»?

ingannevole e crudele si muta

come il seducente canto

delle perfide sirene, tue figlie,

i naviganti incanta ed eros promette,

ma, ahimè, distruzione e thanatos sparge.

Mi sembra che l’idea di una storia perduta sia ricorrente nell’opera della poetessa e mi riferisco alla figura iconica del vecchio marinaio,

forte il pensiero, scrive bianche pagine

dell’ultimo capitolo del viver suo a narrar

di storie e miti di un’isola che non c’è.

Scompaiono i tempi e scompaiono i luoghi poiché il suo racconto è «rapito dal grande mare grigio e piatto dell’indifferenza». In questo caso l’aspetto negativo del mare insensibile diventa un tratto umanizzato poiché l’indifferenza è quella della distanza di giovani che non sono pronti ad ascoltare. Come dicevo, la poesia si trova a combattere contro l’indifferenza che probabilmente pervade la nostra epoca ricca di cronaca, che non assurge alla funzione di formare una coscienza. Trovo, questo, un tratto che tocca molte delle composizioni dei poeti dell’Antologia. È il tratto che prediligo seguire nella lettura. Nella poesia Nostos Bellomo chiarisce ulteriormente la sua percezione della vita, riferendosi ancora alla speranza che in questo caso è il bisogno o desiderio di trovare «un altro sé», una sconsolata consapevolezza poiché anche la «terra mia natia» non è più terra natia, ma un’isola a cui si arriva come forestieri. Ahimè!

Sulle tue rive un giorno si approderà,

forestieri… si ritorna da te, sicuro approdo

Non c’è nulla in sostanza che indichi una trascendenza verso una verità religiosa che guidi l’azione e il destino dell’uomo. E, pertanto, il ritorno al mare non è connotato come speranza, ma come umana sofferenza, «Acqua di mare sono le mie lacrime». Sono pensieri che portano a La Vacuità di Narajuna, monaco indiano, citata da Daniele Gandolfi il quale in Equilibrio, riprendendo l’immagine dell’instabile mare – analogo al fatto che Narajuna non riconosce un sé individuale definito come sostanza – scrive: «LA  RETTA   DELL’EQUILIBRIO  È  TALE    SOLO   DA  LONTANO / ME   NE    SONO ACCORTO / AVVICINANDOMI/L’HO   SCOPERTA   ONDULATA / CON    QUELLA    IRREGOLARE     MA    FRATTALE     INCRESPATURA     DIFFUSA / CHE    HA   IL    MARE   SFERZATO   DAL   MAESTRALE»; che si richiama alla osservazione del fenomeno della meccanica quantistica: «DA    ADEGUATA    DISTANZA  LA  RETTA  E’  UN  TUBICINO/ CONTIENE     UN’   EQUIPE   DI   CONTROLLO/  FORSE    DI    ELFI   FORSE   DI   FATE

E     INTORNO    NON   C’E’   UN   BANALE   PIANO    EUCLIDEO/ BENSÌ UNO    SFAVILLANTE     SPAZIO   MENTALE …».

Riguardo alla terra natia ricordo la poesia di Vincenzo Fiaschitello che si rivolge alla sua terra, che forse sarà costretto a dimenticare, una realtà onirica che nel sogno esiste, ma è esiliata nella realtà della vita,

Se un giorno non lontano ormai

saprò dimenticarti, mia terra…

Pure quando

ancor recente avrò dismesso

il tuo ricordo, con me saranno

nell’onirico sogno i mille volti

amati che a uno a uno

hai esiliato dal tuo orizzonte.

In questo contesto un tema caro al poeta sembra essere quello della passata infanzia vista come un «mondo perduto», che viene sacrificato alla cosiddetta ‘vita’ che racchiude in ossimoro una serena inquietudine:

Siderea infanzia che fulmini nel cuore

disfatto dal tempo più non ti ravviso,

immagine serenamente inquieta

di un perduto mondo.

Un mondo che, indelebile, continua a ricorrere come ombra e che, come ombra, richiama il conflitto tra fanciullezza, indecisa nella sua direzione, e l’età adulta che sa rimpiangere e rivivere i ricordi di gioventù:

I vicoli e i ronchi senza uscita

che ti videro fanciullo non sanno

che l’ombra di un ricordo

s’aggira ancora là dove la sera

d’estate i vecchi narravano

la loro gioventù

Tra l’infanzia e la vecchiaia che cosa si colloca? La risposta è un futuro lontano e ignoto, fatto di nodi intricati da sciogliere, che sembrano allontanarsi, ma non dimenticare, le «indulgenti voci familiari» dell’età appena trascorsa:

In cuore il giorno mi batteva

aderente all’intrico di pensieri

che mi portavano nel dove lontano

e ignoto, trasvolando cieli

di là da suoni e indulgenti voci

familiari.

Sullo stesso tema si legge, in Poeta di Gianni Ianuale «trame di nostalgia» e in Apologia d’anima:

E… il poeta che vive in me, esclamò:

“Non sono nessuno,

ma sempre pronto ai modi generosi.

Sono l’ombra di me stesso,

poiché amo scrivere anche di notte

parole su parole”

tema che ritorna in Sine Titulo, in cui una fragile figura umana si ritrova ad essere, nella scia di John Donne, una ‘isola’ e dunque,

Soli, dannatamente sempre più soli

ad osservare l’altra anima del cielo,

il mare, la natura in fiore

Sembra che una sorta di salvezza, o di speranza, venga dalla Natura, dal suo inarrestabile riproporsi nella bellezza, nei tempi e nelle stagioni, una consapevolezza che si unisce ad altre in questa poesia dove il senso religioso tradizionale («Poveri noialtri, che ancora silenziosi/ ci affidiamo a Dio, agli angeli, alla volontà»),“Lascia il posto alla Natura:

la neve, la pioggia e tant’altro…

forse le uniche sostanze

che ancora nel bene e nel male

viviamo nel cuore.

Guido Mura cerca una sua religiosità scoprendola in una misteriosa «crepa» nella quale penetrare e nella quale sapere osservare:

Qualcosa arriva – truci assalitori

o suoni d’arpa – nobili fanfare

o canti di cicale del meriggio

mentre uccelli si posano loquaci

messaggeri del cielo –

Forse arriva la vita

da quella crepa

Perseguendo la linea di una inarrestabile perdita, trovo le parole di Monia Costantino che richiamano l’idea di un passato perduto, in Il passato è passato: anche qui sentimenti che ci legano e che si perdono, anche qui il riferimento è alla Natura, è «rimestando» il suolo duro della propria realtà palese che si può arrivare ad una «agognata ricchezza»:

E lì,
troverai la libertà
vera

pura
onesta
d’un te inesplorato
e di cui ti sei
– solo –
appena accorto.

Nella poetessa la speranza è di trovare una nuova luce», di diventare «una novella fenice», di rinascere dunque, di riconoscersi infine in una «leggera brezza d’estate», salvifica. Il riferimento della poetessa è qui esistenziale, nel senso che la definizione e la ricerca riguarda l’amore umano: ma l’azione di «amare», con un gioco pessimistico, si fa aggettivo:

Amare son
le crude verità
vestite da chierichette

L’amore anche per Michelino Fistetto è:

Storia eneoromantica,

che si rinnova di notte, nei sogni,

e quello che rimane è solo un’eco:

Ma l’eco dell’Amore,

tuttavia,

rimbomba pur sempre

nel silenzio dell’anima.

Nulla appare concreto e definibile, nemmeno l’amore, in particolare l’amore, in questi poeti. Si vedano le composizioni di Consuelo Rodriguez:

Oggi le

rose

non fioriscono tu

non sorridi io

mi perdo.

La nostra

primavera non dà

boccioli

il nostro autunno non

seminerà.

Noi così

senza

avvenire se

non quello

offerto

dai miei

malinconici versi

che sfiorano l’andare

dei nostri anni

Altrettanto sconsolante è l’idea di Emy Daniele che esprime la stessa apprensione quando «da sdraiata» osserva il mondo e persino gli aquiloni fanciulleschi che dovrebbero allietare la vista appaiono come:

… il beffardo volteggiare

di una moltitudine di aquiloni colorati, salire

insieme a qualche foglia,

che il vento aveva soffiato via dagli alberi.

che forse qualcuno le avrà dato per

piroettare una danza macabra.

Si diceva del senso religioso che manca nella sua concezione tradizionale che, invece, troviamo nella saldezza delle parole di Giovanni Dotoli. Anche Dotoli richiama il mare come l’orizzonte a cui tendere, indica una stella polare da ritrovare, che può essere il sole che dona «il sentiero d’amore» … «Odorando rotte di marinai/Le seguo per foglie d’ulivo/ Fino ai baci delle sirene», attraverso immagini che lo portano a riscoprire «la traccia di Dio». Una traccia che fa riflettere sull’idea che «il mare è un abisso/ Di morti in viaggio per vivere», con riferimento ai migranti che «Sorridono per un tozzo duro»; Dotoli conclude che la vita non è una entità da rinnegare, e che il mare non «è un abisso», perché «La vita è un tragitto d’amore». Tema che ritorna in Sara Musa:

È lo stesso sole

che rimbalza sui vetri e sugli specchi

e sprofonda nella polvere e nei crateri

delle strade e delle case dei nostri fratelli ucraini

e in Ucraina di Michelino Fistetto, appassionata composizione dedicata alla tragedia dell’Ucraina. Ogni romanticismo scompare, non si guarda più al cielo ma alla durezza della terra e delle morti che essa ricopre:

Sbocciano acute spine

dove al vento ridevano le rose

guardando il cielo

L’impegno sociale e umanitario prevale nelle poesie di Roberto Pasanisi. Quella di Pasanisi è critica acutamente accusatoria rivolta alla filosofia che domina il nostro tempo dominato dall’accumulo di denaro e di ricchezza e dalla povertà dei sentimenti. L’invito di Pasanisi è chiaro:

Sciogliamo il nostro piccolo ghiacciaio dell’anima

Oggi che ne muoiono di più di crepacuore

E l’egoismo è il cuore ferino dell’etica capitalista

Gli angeli sono diventati ragionieri o contabili

Noi volevamo l’impossibile, come tutti voi

Ma ora che ne sarà mai di noi

In quest’età brutale e tempestosa?

C’è opportunamente in questi versi un ricordo dei limoni di Montale? «Quando un giorno da un malchiuso portone/tra gli alberi di una corte/ci si mostrano i gialli dei limoni;/e il gelo del cuore si sfa, / e in petto ci scrosciano/le loro canzoni/ le trombe d’oro della solarità».

Un ricordo che si ritrova in Natalizia Pinto che, dopo il mattino burrascoso, indica al suo interlocutore «i fili/che conducono/al giardino dei limoni».

È un’eternità fasulla quella indicata da Pasanisi, che «uomini spassionati vivevano incupiti la turpe commedia del successo»; ricercano anche costoro «il centro radioso della propria epoca» e credono in questo modo di avere diritto a un turno nell’eternità della storia umana. La critica di Pasanisi è assoluta quando si riferisce al fatto che «Il potere dei soldi era di pietrificarti l‘anima», che la promessa fasulla era quella di guadagnare «il segreto della bellezza» mentre ironicamente «Così ti trovi bloccato, per l’eternità, in un ingorgo di traffico, /incastrato nell’autobus all’ora di punta». Con sensibilità junghiana, Pasanisi non si ferma all’esteriorità, ma accenna a ciò che il nostro Inconscio nasconde, ad un certo momento dichiarando una umiliante verità: «La bellezza giace sepolta negli abissi dell’oblio». Non c’è la bellezza, che viene sovente citata nell’Antologia come sola forma di liberazione e vera prerogativa dell’essere umano. L’accenno finale è un auspicio, quasi speranza ultraterrena, di essere angeli che sapranno correggere le storture e «far germogliare il perduto fiore della bellezza». Affiancandosi ad altri poeti presenti nell’Antologia, Pasanisi riafferma che è solamente la bellezza l’entità che ha guidato la sua stessa vita e la sua sensibilità: «Sei stata tu il mio grande amore, il mio unico amore». È una affermazione, sollecitata dallo smarrimento della bellezza, di una bellezza spirituale, prima che fisica, come altri poeti nell’Antologia descrivono e, anche quando la descrizione dell’amore e della bellezza sono fisici (ad esempio in Come velieri nell’oceano del mondo di Mario Selvaggio), dietro alla descrizione fisica si nasconde un anelito spirituale. Bene si accordano i versi di Guido Mura nella sua accusa all’intolleranza: «Oltre il perenne andare delle cose/come un bollore ardito e inconsapevole/arde l’intolleranza» e, al tempo stesso, sembra impotente la bellezza che pure la Natura continua a mostrare, al volgere delle stagioni, in Canto di maggio e Non sono io:

Ancora torna maggio coi suoi cieli

troppo ridenti e carichi di attese

illusioni roventi

aggrappate ai balconi

inondati di luce e di profumi

nel gaudioso delirio il male irrompe

Dove sono le gemme

esplose a primavera

i prati di certezze?

Sbocciano acute spine

dove al vento ridevano le rose

guardando il cielo

Accanto alle parole di Roberto Pasanisi, ricordo quelle precise nell’accusa di Aldo Pardi in La bestia lavoratrice: «La bestia lavoratrice/consuma/produci/è la forma di vita del padrone/concorrenza»; una vita di «sumissione» alla quale si sacrifica anche l’amore: «Amore – fine/il mondo è grande/incontro/era noto già da prima/alla fine/stiamo…Al muro/ ripiegato a difesa/guardia/nel caposaldo/in brecce/nel territorio del padrone».

Per ultimo vorrei citare il testo che generosamente è stato pubblicato nella Antologia e che è una parte di quello che scrissi dedicato alla tragedia del Vajont, di cui, il 9 ottobre 2023, ricorre il sessantesimo anniversario, «In una biblioteca che non conosco». Ho scelto come protagonisti un ragazzo sopravvissuto e un bambino perduto nell’inondazione del Vajont, tragedia con la quale è immediata l’identificazione emotiva. Ho scelto il simbolo di un libro, perché il libro è simbolo universale e immediatamente comprensibile, considerato da Emmanuel Lévinas «una modalità del nostro essere». L’immagine è quella di un libro chiuso dal fango, pagine sigillate tra le copertine che non possono aprirsi, che non possono essere aperte in un dialogo: Il fratello sopravvissuto si rivolge al fratellino ma il fratellino non può rispondere alle notizie e ai racconti vissuti dal fratello; il libro non indica, come sarebbe logico indicasse, l’inizio e la fine di una storia che i due fratelli avrebbero potuto condividere. Ho scelto il luogo della biblioteca perché essa è sede della nostra universale memoria. Nella biblioteca sono presenti pagine ritrovate di diari di altri bambini scomparsi, il diario di Marinella per sua madre, emersi dal fango come reperti preziosi, e questo mi ha ricordato la storia del villaggio di Guaca, storia lontana dal Vajont ma idealmente collegata. È la storia di un villaggio di pescatori e del ritrovamento di un tesoro inaspettato, un tesoro come è stato ogni ritrovamento di oggetti o dettagli nel fango dell’inondazione. «Quel triste giorno il parco era pieno di fango, di rami spogli, di desolazione… i bambini però saltellavano emozionati, ogni tre passi si fermavano indicando entusiasti un sasso, una ghianda, un fiorellino sopravvissuto, un pezzo di stoffa colorata, una chiave, una moka, un bottone, una moneta, un orologio … «le lancette… tutte orrendamente ferme su un unico orario. Intorno alle 22 e 45». Cercare tesori era la missione di quella giornata, alle quattro del pomeriggio avrebbero avuto le tasche piene d’erba e di foglie, completamente soddisfatti del bottino.

Giulio Marra
Università “Ca’ Foscari” di Venezia

  

 La poesia è una risposta alla vita

Vi è un triste canto di assenza, se non di morte, quasi ovunque. Si dice che la poesia sia scomparsa, che abbia creato un muro davanti a sé. Non ha più lettori. Le pubblicazioni sono autoprodotte. Sempre gli stessi poeti, piccoli editori e appassionati di poesia, agli incontri e ai festival di poesia.

È vero? La poesia è davvero morta? Le struggenti voci poetiche di questo florilegio dimostrano esattamente il contrario. Potremmo dire addirittura che la poesia non è «socialmente invisibile»[1]. Essa è anche soprattutto socialmente visibile. La poesia è qui, davanti a noi, come una stella. Non una stella cadente che scompare negli abissi del cielo e della terra, ma una stella luminosa, performante, solida, che conduce verso il mistero della vita.

La poesia del nostro tempo ha molto da dire. La realtà si è rinnovata, seguendo il ritmo mutevole della società. Eppure conserva le sue tracce antiche, il suo linguaggio proveniente dalla notte dei tempi, il suo dialogo con l’essere, la sua voce, per seguire i segni dei titoli delle poesie di questa antologia.

La poesia è ancora e sarà sempre una «carta vitale»[2], dei nostri sogni, del nostro dolore, delle nostre speranze. Arriva dove altre lingue non arriveranno mai. Va dritta al cuore, senza mai creare scompiglio: mostra, al contrario, vie, sentieri, strade da seguire.

Si parla di poesia del silenzio. Ma esiste questa poesia? Sì, se seguiamo la strada tracciata da Stéphane Mallarmé, no se diamo alla poesia un segno minimalista. Tutta la poesia è enunciativa, anche quando si limita a una suggestione lontana. La poesia è una traccia profonda della voce umana.

Jean Cohen ha ragione: è il mondo ad essere al centro della poesia[3]. Voce e mondo. Mondo e voce del poeta. La poesia del nostro tempo è un incontro, una voce che vive, come suggerisce Giovanni Dotoli. È un’abitazione esistenziale e metafisica[4]: il poeta abita il mondo per viverci, ricercando le vie più utili alla buona causa. Nessuna contraddizione, anche quando parla ‘diversamente’, anche quando preferisce il crepuscolo, il fragile, l’effimero, la mezza verità, il passato, la mancanza. È sempre la voce dell’altro a presentarsi sullo schermo, in dialogo costante con quella del poeta.

Poesia della resistenza[5] o poesia della vita, dunque?

È la poesia della vita. Anche la resistenza fa parte della vita. Come dimostra un’importante ricerca appena pubblicata in un ampio volume[6], la poesia parla della realtà, anche «attraverso l’irriducibile» [7]. La poetica è una «articolazione della realtà»[8]. Ogni poesia è una «nascita della vita»[9]. Il suo unico scopo è «raccontare la vita»[10]. Una vita contingente, vera, la nostra e quella degli altri, di tutti gli altri sul pianeta e negli altri mondi[11]. La poesia contemporanea assume la forza del contingente. Sa che «la terra è bella come…»[12], avendo come punto di riferimento il celebre verso di Paul Éluard: «la terra è bella come un’arancia azzurra», vista da lontano dagli astri e dalle stelle.

Ogni luogo è quindi possibile, in poesia. Non più luoghi privilegiati, non più zone cosiddette liriche per eccellenza, come si pensava fino al Romanticismo e talvolta anche nel secolo scorso. La poesia contemporanea va oltre l’avanguardia dei primi decenni del Novecento, quella dei futuristi, dei surrealisti e di tutti gli innumerevoli -isti. È un «giro delle arti»[13], in un «testo permanente»[14]. Il «fatto poetico»[15] non ha più limiti, perché i misteri umani sono sempre gli stessi, anche di fronte al trionfo delle tecnologie più avanzate.

Ecco perché c’è un grande ritorno del lirismo. La stessa poesia più scandalosa, quella sonora, quella più ermetica e quella ispirata al rap, è un’emergenza lirica. Il processo al lirismo è finalmente morto. Il poeta torna ad essere sincero, al limite a volte del letterale, ma seguendo un’«etica della voce»[16], la sua e quella dell’altro.

La voce ridà grande forza al soggetto. «Il soggetto lirico avrebbe un futuro? »[17], si chiede Michel Deguy. Rispondiamo sì. La poesia attuale dà libero spazio al soggetto, al suo mondo e i suoi mondi: è una poesia del «riavvicinamento»[18] e del «volto plurimo», come sottolinea Fabio Scotto[19]. La voce diventa «transpersonale»[20] e polifonica.

Così la poesia potrà parlare di scienza e di viaggio in altri mondi, ma anche di alberi ed erba, sole e luna, amore e tragedie umane. Non sarà più sola, perché vivrà solo nella visione del mondo e degli altri. Non imiterà, ma cercherà, all’infinito.

Lo scientifico diventa altamente poetico. Tutto è poetico, così come per Pablo Picasso tutto è pittorico. La materia della poesia si è espansa infinitamente. Potrà essere voce e modo, grido e segno, scritto sulla pietra, come un messaggio indelebile, come la presenza dell’uomo.

La poesia ritorna ai suoi vecchi punti di riferimento? Sì, perché non li ha mai abbandonati. Era rivelazione, è rivelazione e sarà rivelazione: rispondere al caos del mondo e indicare alcune possibili vie di salvezza.

La poesia è una risposta alla vita.

I testi di questa antologia sono testimonianza viva che nella poesia il sacro non potrà mai morire, con i suoi insondabili segreti.

Mario Selvaggio

Università di Cagliari, 3 novembre 2023

 

[1] Jean-Claude Pinson, Faire son temps, in Dire le réel aujourd’hui en poésie, sous la direction de Béatrice Bonhomme, Idoli Castro et Évelyne Lloze, Paris, Hermann, 2016, p. 23.

[2] Élodie Bouygues, Le poème comme carte vitale, ibidem, p. 229.

[3] Jean Cohen, Théorie de la poéticité, Paris, José Corti, 1995, p. 239 et seqq.

[4] Ibidem, p. 278.

[5] Jérôme Thélot, Le travail vivant de la poésie, Paris, Les Belles Lettres, 2013, p. 19 et seqq.

[6] Dire le réel aujourd’hui en poésie, sous la direction de Béatrice Bonhomme, Idoli Castro et Évelyne Llloze, op. cit., p. 671

[7] Antoine Emaz, « C’est » : le réel par l’irréductible, Ibidem, p. 405.

[8] Béatrice Bonhomme, Articulation du réel et du poétique, Ibidem, p. 433.

[9] Jérôme Thélot, Le travail vivant de la poésie, op. cit., p. 54.

[10] Ivi, p. 83.

[11] Jean-Claude Pinson, Habiter en poète. Nouveaux essais sur la poésie contemporaine, Seyssel, Champ Vallon, 2002, p. 95.

[12] Michel Deguy, La poésie n’est pas seule. Court traité de poétique, Paris, Éditions du Seuil, 1987, p. 105.

[13] Ibidem, p. 152.

[14] Michel Butor, L’Utilité poétique, Saulxures, Circé, 1995, p. 15.

[15] Michel Deguy, La poésie n’est pas seule. Court traité de poétique, op. cit., p. 42.

[16] Jean-Claude Pinson, Habiter en poète. Nouveaux essais sur la poésie contemporaine, op. cit., p. 217.

[17] Michel Deguy, La poésie n’est pas seule. Court traité de poétique, op. cit., p. 176.

[18] Ibidem, p. 178.

[19] Présences du sujet dans la poésie française contemporaine (1980-2008). Figurations, configurations et postures énonciatives, sous la direction d’Elisa Bricco, Saint-Étienne, Publications de l’Université de Saint-Étienne, 2012, p. 71 et seqq.

[20] Ibidem, p. 71.

 

Le Edizioni dell’Istituto hanno pubblicato e pubblicano, spesso in séguito alla vittoria del Premio “Letteratura”, testi di grande rilievo scientifico e creativo: uno dei più recenti, uscito nel dicembre 2023 con prefazione e note critiche e nella traduzione di Luciano Mastrogiacomo, è la seconda edizione interamente riveduta (dopo la  prima pubblicata dalle Edizioni dell’Istituto nel 2018) de Il cuore della notte, uno dei maggiori ‘romanzi brevi’ di Nagib Mahfuz, scrittore Premio Nobel per la letteratura nel 1988, che per primo ha dato forma ad una narrativa araba classica di portata universale.

 

 

Altrettanto rilevante è stata nel 2023 la pubblicazione dell’antologia della lirica italiana di oggi Ma in attendere è gioia più compita. Il fiore della poesia italiana contemporanea, curata da Roberto Pasanisi; prefata da Giovanni Dotoli, grande francesista di fama internazionale e poeta, professor emeritus all’Università di Bari “Aldo Moro” e docente all’Università della Sorbona di Parigi; postfata da Mario Selvaggio, anche lui poeta riconosciuto e rinomato studioso della lingua e della letteratura francese, docente all’Università di Cagliari.

 

 

 

  

Di grande rilievo nel 2023, sempre a dicembre, è stata pure la pubblicazione nella collana Nugae di due raffinate plaquette di poesia: La vita attorno ad una tazzina di caffè – 1948 Rione Sanità – Napoli di Giulio Salamiti (Prefazione di Martina Di Bella, allieva del Master telematico in Psicologia dell’arte e della letteratura del CISAT, il Settore di Psicologia dell’Istituto Italiano di Cultura di Napoli)

 

 

e Second’aria di Monia Costantino (Prefazione di Rosa Villari, allieva del Master telematico in Psicologia della Musica e Musicoterapia del CISAT, il Settore di Psicologia dell’Istituto Italiano di Cultura di Napoli).

L’iranista e arabista che ha curato Il cuore della notte di Mahfuz ha tradotto e curato nel 2022 per le Edizioni dell’Istituto anche Con Shobeyro, di Mahmud Dowlatabadi, autore di fama internazionale riconosciuto come uno dei maggiori scrittori persiani contemporanei.

 

Significativa nel corso dell’anno accademico anche l’edizione del saggio dantesco di Antonietta Benagiano Dante Alighieri. L’essilio che m’è dato…,

Come si legge nella Nota in IV di copertina, estratta dalla prefazione di Roberto Pasanisi L’attimo che scorre nell’eterno:

Parlare di Dante oggi, e del suo «essilio», come fa offrendoci un laboratorio interiore di raffinate emozioni Antonietta Benagiano, a 700 anni dalla nascita, vuol dire parlare della poesia, del suo ruolo e del suo senso nella società moderna, dopo quella che fu chiamata la ‘civiltà delle macchine’. È quello che si chiedeva Eugenio Montale nel discorso che pronunciò in occasione del conferimento del Premio Nobel, il 12 dicembre 1975: È ancora possibile la poesia? «Nel mondo c’è un largo spazio per l’inutile, e anzi uno dei pericoli del nostro tempo è quella mercificazione dell’inutile alla quale sono sensibili particolarmente i giovanissimi. […] Le comunicazioni di massa, la radio e soprattutto la televisione, hanno tentato non senza successo di annientare ogni possibilità di solitudine e di riflessione. […] Ma non è credibile che la cultura di massa per il suo carattere effimero e fatiscente non produca, per necessario contraccolpo, una cultura che sia anche argine e riflessione. […] Nella attuale civiltà consumistica che vede affacciarsi alla storia nuove nazioni e nuovi linguaggi, nella civiltà dell’uomo robot, quale può essere la sorte della poesia?». […] L’engagement estetico, psichico e sociale della poesia risponde con precisione a codesta domanda: «L’uomo tende a addormentarsi nella propria normalità, si dimentica di riflettersi, perde l’abitudine di giudicarsi, non sa più chiedersi chi è. È allora che va creato artificialmente, lo stato di emergenza: a crearlo ci pensano i poeti. I poeti, questi eterni indignati, questi campioni della rabbia intellettuale, della furia filosofica» (Pier Paolo Pasolini). Perché un grande romanzo o una grande poesia possono insegnarci – sulla psiche umana – molto più di un grande trattato di psicologia. […] E sono gli artisti stessi che ci rispondono, i letterati, i filosofi, i cineasti artisti (idest quelli che producono il ‘cinema d’arte’, totalmente a sé rispetto al cinema mainstream, ovvero commerciale): chi potrebbe meglio di loro spiegarci a che serve la poesia? E come e perché sia sopravvissuta al dominio della tecnica (Emanuele Severino), e come fieramente la contrasti? Ma anche i filosofi della scienza: «Noi sentiamo che, anche una volta che tutte le possibili domande scientifiche hanno avuto risposta, i nostri problemi vitali non sono neppure toccati» (Ludwig Wittgenstein). Perché, domandate? Beh, perché «Sono certo che saremmo persi senza un ritorno ai valori spirituali. La via spirituale è l’ultima possibilità rimasta all’uomo. […] L’arte è indispensabile: la qualità divide gli uomini, mentre l’arte li unisce profondamente. L’arte è il segno della nostra identità universale. […] L’arte è tutto. Ma oggi […] viviamo sotto la dittatura dell’informazione politica e dello sport. Nessuno parla più dell’uomo, dell’arte: solo politica e sport. Inoltre, siamo vittime dei banchieri, del denaro, mentre la sola salvezza dell’uomo è l’arte» (Éugene Jonesco). […] E allora cosa opporre al dominio del funzionalismo moderno, del pragmatismo più bieco e autocratico, del consumismo più radicale, che hanno trasformato l’essere umano in consumatore vorace ed ottuso del mercato globale? […] Ma l’arte è ribellione estetica allo ‘stato delle cose’, ricreazione continua del mondo, accensione inquieta e lacaniana del desiderio e dell’immaginazione, estasi sublime e lacerante di eros e poesia – è θεία μανία, come diceva Platone nel Fedro: «Considero la poesia una fonte d’innocenza colma di risorse rivoluzionarie. La mia missione consiste nel dirigere queste forze contro un mondo che la mia coscienza rifiuta di accettare, esattamente in modo da rendere quel mondo, attraverso continue metamorfosi, più in armonia con i miei sogni» (Odisseo Elitis). […]  È questa la risposta finale alla domanda di Montale: la poesia non è solo ancora possibile, ma è soprattutto necessaria quanto il pane, quanto l’acqua, quanto l’aria che ci fa vivere e ci aggancia – complessa, difficile e indispensabile quanto le cose semplici e basilari – secondo l’insegnamento dell’antica meditazione Vipassana, al presente, ovvero all’attimo che scorre da sempre e per sempre nell’eterno. Perché nulla dura per sempre, tranne la poesia.

 

Fuori Collana è uscito un giallo avvincente, una detective story al calor bianco di un’autrice già vincitrice del Premio “Letteratura”: Mariateresa Izzo, Le tre vite di André. Il Giudice Rosati nell’Isle of Dogs – la Prefazione è di Serenella Iovino, una sua ex allieva, oggi Professor of Italian Studies and Enviromental Humanities,
University of North Carolina at Chapel Hill, U.S.A.

 

 

Il romanzo autobiografico di un’altra vincitrice del Premio “Letteratura”, Amedea Mantovan Regazzo, Storie di famiglia, evoca attraverso una preziosa ricostruzione storica événemential, come direbbe la storiografia francese – arricchita da un ampio e variegato corredo di rarissime foto d’epoca e con tenera ma sofferta nostalgia d’antan – tredici anni di ricordi di guerra e di profugato nell’immediato dopoguerra in territorio veneto (1940 – 1953).

 

 

E Il colore delle emozioni d’amore? Questa è una raccolta di versi che possiamo raccontare e sintetizzare in un solo sintagma: poesie d’amore, nella fantasmagoria dei colori di tutto il loro spettro che stanno per lo spettro declinabile e declinato all’infinito delle emozioni di questo antico sentimento di sempre e per sempre.

 

 

Last but not least, in questo 2023 così ricco editorialmente, con un libro del nostro tipografo, grafico e poeta napoletano Alfonso Longobardi entriamo nel cuore della Napoletanità e della storia di ‘Napoli Capitale’ – dell’Italia, della Campania, del Sud Italia:

 

 

Nu poco ‘e mme nu poco ‘e Napule. ‘O tiempo passa ‘e che fà, i’ vulevo sulo nu poco d’alleria «è – come scrive Roberto Pasanisi nel saggio di Napoletanistica che introduce la raccolta – un omaggio alla tradizione della poesia (e della canzone) napoletana sul filo della malinconia e della nostalgia. È una poesia che evoca modi e atmosfere digiacomiane. Pensiamo a liriche stupende come Na tavernella (Vierze nuove, 1901) […] Sono per lo più tenere ariette del cuore, i versi di questo poeta, che con neo-romantica sensibilità scorre i luoghi della Napoli d’antan: dalle solari colline del Vomero alle aperture mediterranee e marinare (una sorta di Marinero en tierra albertiano) di Posillipo e Marechiaro, dal centro storico del Vasto e della Vicaria al dedalo oscuro e impenetrabile di vicoli dei Quartieri Spagnoli. È una topografia di Napoli tutta à l’intérieur quella che ci offre l’autore, che diventa subito un grand tour del cuore e dei sentimenti intriso di un rimpianto che a volte è dolce come una canzonetta del Chiabrera o di Pindemonte, altre volte cupo e profondo fino a un disperato e disperante cupio dissolvi. […]uno scacco esistenziale non più rimediabile, se non nelle tracce e nei frammenti ‘e nu poco ‘e mme, che non può però essere compensato da nu poco ‘e Napule che rimane, dopo che i carri armati della modernità vi sono passati sopra e il sacco edilizio della città ad opera dei nuovi barbari guidati negli anni ‘50 dal sindaco Lauro – e eisesteinianamente immortalati da Francesco Rosi nelle pellicole engagé de I magliari ( 1959) e Le mani sulla città (1963) – hanno brutalmente violato e deturpato il volto bellissimo del «giardino d’Europa» decantato dal Grand Tour settecentesco, alle origini del turismo moderno, del quale Napoli è stata (con Roma, Firenze e Venezia) l’indiscussa artefice e protagonista oltre che fondatrice.»

 

 

In questo contesto temporale in cui la fragile e predominante società occidentale riesce a fare affidamento solo su ciò che vacuamente appare perfetto, nascondendo l’orrore della perdita del senso profondo della vita, la poesia appare come un papavero vivo che spunta nel cemento.

I poeti, oggi, sono coloro che resistono e che, resistendo, restituiscono a noi verità e bellezza.

Nel suo discorso in occasione del settantacinquesimo anniversario del Premio Nobel, Eugenio Montale, confermando il valore indissolubile e necessario della poesia, disse: «Io sono qui perché ho scritto poesie, un prodotto assolutamente inutile, ma quasi mai nocivo e questo è uno dei suoi titoli di nobiltà. Ma non è il solo, essendo la poesia una produzione o una malattia assolutamente endemica e incurabile».

Dov’è la bellezza? Così lontani come siamo dall’esistere in armonia, perfetta ed imperfetta, con ciò che è natura: ombre, luci, terra, fiori, fiumi, stelle, pianeti, fuoco, silenzi, neve, bianche margherite, pioggia, rubini, frutti della stagione. Ecco cosa ci ridona, con questo testo, l’autrice Monia Costantino.

Si potrebbe cedere alla malinconia di sensazioni, abitudini, luoghi e paesaggi perduti come nella poesia di Joachim Du Bellay, frutto di una dolorosa nostalgia per le campagne della dolce Loira da lui abbandonate: «De vostre doulce halaine eventez ceste plaine, eventez ce sejour, ce pendant que j’ahanne a mon blé, que je vanne a la chaleur du jour»; ma un senso di luminosa speranza ci avvolge leggendo i versi della nostra poetessa: «Sai spesso sogno di te e m’immagino di noi / tutt’intorno s’assopisce / la paura s’impietrisce / sprofondo nei tuoi raggi d’Autunno / e attendo il traguardo». (Sole d’autunno).

È un ‘messaggio nella bottiglia’ che la poetessa ci lancia e ci lascia: sta a noi raccoglierlo.

Monia Costantino è un’allieva dell’Istituto Italiano di Cultura di Napoli. È nata nel 1999 a Legnano (MI). Le venature fresche e cangianti che contrassegnano i suoi testi sono il frutto delle variegate influenze culturali nate dai suoi anni passati all’estero, tra l’Inghilterra e l’Islanda. Socia ed allieva dell’Istituto Italiano di Cultura di Napoli, frequenta il III anno del Corso di formazione in Scrittura Creativa (LESC, Laboratorio Elettronico di Scrittura Creativa) ed ha partecipato ai Seminarî internazionali interdisciplinari del CISAT. Ha curato le prefazioni di alcuni volumi pubblicati nelle ICI Edizioni. È stata designata tra i vincitori del Premio “Letteratura” poesia narrativa saggistica dell’Istituto Italiano di Cultura di Napoli nella XXXVI Edizione (2020), nella XXXVII Edizione (2021) e nella XXXVIII Edizione (2022). Alcuni dei suoi versi fanno parte dell’antologia Ma in attendere è gioia più compita. Il fiore della poesia italiana contemporanea, a cura di Roberto Pasanisi, Napoli, Edizioni dell’Istituto Italiano di Cultura di Napoli, 2022. Con le ICI Edizioni ha pubblicato la sua prima opera, una raccolta di poesie, Second’aria, Napoli, Edizioni dell’Istituto Italiano di Cultura di Napoli, 2022.

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