La comprensione delle metafore e idiomi nei pazienti affetti da Alzheimer di Antonella Sartor

Spiegazione della metafora

La diffusione della metafora nel linguaggio ordinario fu evidenziata per la prima volta con la pubblicazione di Metafora e Vita Quotidiana, nel 1980, di Lakoff e Johnson. Da allora, la ricerca sulla conoscenza umana ha confermato sempre più il ruolo centrale della metafora nel nostro sistema concettuale, nella nostra percezione delle cose che ci circondano, nel modo in cui interagiamo con il mondo fisico, in modo particolare con i nostri simili.

La metafora appartiene al linguaggio di tutti i giorni, più che un fenomeno tipicamente linguistico, concerne il nostro modo di ragionare poiché é il nostro pensiero stesso che é “metaforico”. Le metafore convenzionalizzate appartenenti oramai al sistema della lingua, sono diventate la base per poter capire espressioni metaforiche originali e nuove. Un esempio di metafora concettuale é dato da questa espressione “Il tempo vola” dove il dominio più astratto del tempo può essere ricondotto al dominio più concreto del verbo “VOLARE”. Questa metafora non fa riferimento esclusivamente ad una singola espressione di una lingua, ma la si deve porre ad un livello di maggior astrattezza così da motivare poi tutta una serie di locuzioni.

     tempo                                  vola

     le persone                            uccelli

     tempo che scorre                  volo

     le aspirazioni della gente       destinazione del volo

     le difficoltà                           ostacoli causati dal volo

La riuscita della metafora, oggi molto usata nella pubblicità e nella propaganda in genere, dipende sempre più dalla novità dell’invenzione, dalla scoperta imprevedibile di un rapporto fra due termini di significato completamente diverso. Tipiche sono le metafore verbali che attribuiscono tratti non pertinenti ad un nome attraverso l’antropomorfizzazione di oggetti inanimati: il piatto piange, il tempo vola, l’ora incalza, la luna sorride.

Le motivazioni dell’utilizzazione della metafora sono da attribuire alla realtà concreta e al linguaggio che la rispecchia. La metafora é comunque originata dal bisogno di esteriorizzare contenuti emozionali o ideativi per i quali il linguaggio denotativo non contempla termini adeguati. Se, però, la metafora rappresenta un modo diverso di conoscere la realtà ed un approccio diverso ad essa, quello che spinge l’individuo a crearla non é solo il desiderio di esprimere la propria interiorità, ma anche quello di andare oltre determinati confini, di guardare il mondo dalla propria dimensione, senza peraltro dimenticare quella altrui. Perciò la metafora ha principalmente due funzioni:

        a) una conoscitiva

        b) l’altra di conciliazione dell’interno con l’esterno

che operano interagendo. Tutta la nostra conoscenza é di tipo relazionale: un oggetto non può essere conosciuto in sé ma in rapporto ad altri oggetti e tale relazionalità sta alla base delle seriazioni e delle classificazioni di tipo logico. Rapportando l’interiorità o l’ottica soggettiva con l’esteriorità, la metafora costituisce una conoscenza di tipo intuitivo, che é fondata sull’immagine e non sulla dimostrazione. Da ciò si evince che la nostra metafora costituisce un meccanismo di flessibilità del pensiero stesso e non semplicemente del lessico, proprio perché si ritiene che essa non sia meramente un possibile risultato della lessicalizzazione ma che intervenga ad un livello generativo e non interpretativo. Il processo metaforico é innanzi tutto per noi un’operazione di pensiero, sia che venga o meno tradotto linguisticamente in una metafora.

La preferenza per “il concreto”, per “il particolare”, come lo dimostreranno questi due esempi, é profondamente e saldamente radicata nella mente umana. Nel considerare la seguente situazione “E’ un giorno caldo”, possiamo dire “Fa caldo” o “Fa molto caldo”, oppure, esagerando nell’uso di intensivi, possiamo sostenere “Fa un caldo odioso e tormentoso”. La maggior parte di noi, afflitti dal calore,  ricorre all’uso di metafore del tipo “Fa caldo come all’inferno” (Fa un caldo infernale). Evidentemente la metafora aggiunge forza, vigore e ha qualche relazione con la sottigliezza del dettaglio e la concretezza dell’espressione. La forza e la sottigliezza, nell’impiego di metafore, specialmente nel dettaglio sensoriale tendono ad accordarsi.

Realmente parlando, siamo interessati, in primo luogo, alle metafore perché il linguaggio odierno sembra resistente ed astratto. Inoltre, la metafora tende ad accompagnarsi all’espressione di emozioni e di atteggiamenti. Supponiamo di essere stranamente felici e di cercare di esprimere i nostri sentimenti. Possiamo dire “Mi sento felice”, oppure possiamo cercare di trovare una parola che in modo più accurato sia in grado di definire questo speciale sentimento: “allegro, gaio, contento, festoso, estatico, rapito, entusiasta, gioioso, ecc.”. In effetti, molti sono i sinonimi per “felice”, come abbiamo notato guardando un dizionario, dove possiamo costatare lievi sfumature di significato. “Estatico” suggerisce un’estasi sublime, “gioioso” suggerisce, invece, allegria, brio, spensieratezza. Raramente troviamo un aggettivo che esprima esattamente i nostri sentimenti. Per questo motivo ricorriamo all’uso quotidiano di metafore come, per esempio, “Sono felice come una pasqua”, “Mi sento come un miliardario”, “Questa mattina mi sembra di toccare il cielo con un dito” ecc. Le metafore diventano  un forte mezzo di comunicazione poiché in una veloce successione creano e liberano una tensione nella mente dell’interpretante. La metafora non é solamente una figura letteraria ornamentale, poiché é comunemente usata  in tutte le forme dell’espressione linguistica, sia nella lingua scritta che in quella parlata e in tutti i generi della lingua scritta: dalla “narrativa” alla “storiografia”, dalla “formulazione scientifica” al “discorso legale”. E’ evidente come l’uso delle metafore sia importante per lo svolgersi del pensiero in generale che si muove su un piano d’incertezza, di ambiguità, di specificità, di opacità referenziale, sottolineando l’intenzionalità dei significati a scapito delle loro estensionalità. Metafore molto comuni, non più avvertite come tali, sono “collo della bottiglia, piede del tavolo, dorso di una montagna, lingua di fuoco, ecc.”; in questi casi l’uso metaforico dei termini “collo”, “dorso”, “piede”, “lingua” può colmare una lacuna della lingua, vale a dire, la mancanza di una parola specifica. Questa particolare forma viene chiamata “catacresi” o “abuso”. Ad ogni modo la riuscita della metafora é funzione del formato socioculturale dell’enciclopedia dei soggetti interpretanti. In questa prospettiva si producono metafore solo sulla base di un ricco tessuto culturale, ovvero di un universo del contenuto già organizzato in reti di interpretanti che decidono (semioticamente) della similarità e della dissimilarità delle proprietà. Gli idiomi  sono espressioni, modi di dire, la cui trasparenza delle frasi idiomatiche o meglio la facilità con cui si risale dal significato dei costituenti al significato dell’intera espressione è variabile: in alcuni casi come ‘fare il diavolo a quattro’, ‘piantare in asso’ è nulla in altri come ‘fare il bello e il cattivo tempo’, ‘piantar baracca e burattini’, è maggiore. Le espressioni idiomatiche sono cristallizzate non ammettono variazioni e in quanto tipiche di ogni lingua possono avere degli equivalenti in altre lingue ma quasi mai hanno una tradizione letterale.

I pazienti affetti da Alzheimer e il linguaggio figurato

Entrambi questi aspetti del linguaggio figurativo possono essere danneggiati nei pazienti affetti dal ‘morbo di Alzheimer’ giacché richiedono l’integrità della memoria semantica ma i procedimenti da applicare sono differenti. Nel caso degli ‘idiomi’ è necessario accedere e recuperare l’espressione nell’insieme o dopo che è stata riconosciuta la parola chiave. Nel caso di ‘metafore’ è opportuno scoprire una caratteristica importante specifica del mezzo di espressione. Perciò la comprensione della metafora (se la traccia semantica specifica di quella metafora ha lasciato il posto ad una nuova metafora) dovrebbe essere più legata ad una ricerca attiva della specifica qualità semantica. L’idioma o ‘espressione idiomatica’ necessita di essere presente come un tutto (nell’insieme) nel ‘magazzino semantico’ del soggetto e di essere correttamente recuperato. Nel caso di metafore il soggetto può ideare strategie per descrivere a grandi linee la caratteristica specifica del mezzo di espressione, che è rilevante per la metafora. In più questa persona deve conoscere perciò le qualità semantiche del mezzo di espressione chiamato anche ‘veicolo’. Nel caso di idiomi opachi si deve recuperare il significato di quella locuzione senza strategie aggiuntive . Questo idioma (o espressione idiomatica) può o non può far parte della sua conoscenza generale determinandone di conseguenza il risultato. Se quella data voce è persa non esistono possibili strategie che possano trovare il suo significato. In altre parole, il soggetto ha ancora l’opportunità di trovare la risposta nel caso di metafore ma non nel caso di idiomi. Un recente studio ha dimostrato che i pazienti affetti dalla malattia di Alzheimer mantengono la conoscenza delle qualità semantiche e queste qualità sono suscettibili all’attivazione contestuale. In questi pazienti, come del resto in quelli normali, il contesto della frase può selettivamente riempire certi aspetti del significato della parola aumentando transitoriamente la salienza delle qualità che, fino a quando non risultano fondamentali al tipico significato della parola, sono pertinenti a quel particolare contesto. Nel caso della comprensione del linguaggio figurativo il contesto della frase permetterà ai pazienti di dare la spiegazione corretta, come è stato suggerito dalle persone anziane normali, per quel che riguarda le metafore e gli idiomi. Tale attivazione non persiste per lungo tempo. Infatti con l’aggravarsi della malattia ci sarà un momento in cui tale contesto non potrà più attivare in modo selettivo le proprietà del concetto. E questo forse spiega il perché la comprensione della metafora diminuisce col tempo. Il fatto che gli idiomi siano tipicamente associati ai registri relativamente informali o colloquiali potrebbe essere la ragione per cui sembrano essere più resistenti al declino cognitivo.

1.    Il discorso nei pazienti affetti da Alzheimer

Il discorso nei pazienti affetti dal morbo di Alzheimer è spesso descritto vuoto poiché contiene un’alta proporzione di parole ed espressioni che trasmettono scarsa informazione o addirittura priva di contenuto. Essi producono una bassa proporzione di proposizioni e parole ed i pensieri che esprimono sono spesso lasciati incompleti. Comunque la principale caratteristica di questi malati nella conversazione è l’abuso di parole vuote (questa/cosa/lui ecc.). Nonostante tali parole siano comuni nella lingua (davvero molte di loro hanno una grande frequenza), il loro uso è generalmente ristretto a particolari circostanze. Per esempio i pronomi ‘questo, lui’ sono impiegati quando il referente è altamente rilevante per entrambi il parlante e l’ascoltatore, mentre le locuzioni nominali piene del tipo ‘il gatto’ che risultano chiaramente più informative sono usate quando il referente non è altamente rilevante nel discorso. In contrasto all’uso ristretto di pronomi nel discorso normale l’uso dei pronomi da parte di questi pazienti è frequente e inappropriato. Il fatto che il riferimento (la referenza) è spesso ritenuto un processo del livello discorsivo ha portato molti studiosi a sostenere che l’abuso di pronomi non è altro che la conseguenza del fallimento dei pazienti a seguire le convenzioni del discorso o della conversazione. Altri studiosi ancora affermano che il discorso ‘vuoto’ del paziente Alzheimer è dovuto alla mancanza di abilità nello strutturare il discorso stesso.

 

 E questo lo si nota nel numero di idee espresse che è molto inferiore rispetto a quello effettuato dalle persone anziane non dementi in ogni turno conversazionale. Tutto ciò ci porta a considerare il deterioramento pragmatico che riguarda la capacità di fare un discorso coerente e coesivo, in particolare tenendo conto dei bisogni informativi del destinatario. Ciò che più viene studiato è il deterioramento semantico-lessicale e quello della memoria a breve termine. I pazienti affetti dal morbo di Alzheimer hanno in effetti grosse difficoltà non solo a trovare le parole giuste, e questo problema non nasce dalla smemoratezza che li porta a dimenticare quello che dovevano o devono dire, ma sfortunatamente si trovano in difficoltà anche in presenza del referente o della foto di tale referente, in particolare quando questo referente appartiene ad una sola specifica categoria semantica. Piuttosto oseremo dire che la difficoltà a trovare la parola giusta è probabilmente causato da un pragmatico deterioramento nell’elaborare una informazione lessicale da parte della memoria semantica a lungo termine. La produzione di parole ad alta frequenza é relativamente conservata mentre è danneggiata quella che concerne le parole a bassa frequenza. Quindi proprio la mancanza a trovare le parole porta il paziente a formare i così detti discorsi ‘vuoti’. Inoltre a causa del fallimento ad attivare la informazione fonologica intesa (la parola ‘oggetto’) durante la produzione della frase, i malati di Alzheimer, che, nell’insieme,  dimostrano preservata la conoscenza della struttura della frase (a livello grammaticale) rimpiazzano la parola ‘target’ (o parola ‘oggetto’) che non riescono a trovare con sostituto che ha più alta frequenza, facilmente recuperabile, e grammaticalmente efficace.

 

 Da questo punto di vista parole vuote quali ‘cosa’, ‘questo’, ‘lei’ ecc. sono di gran lunga attivate (con successo naturalmente) proprio perché molto frequenti permettendo ai pazienti di produrre frasi grammaticalmente corrette e scorrevoli in presenza di deficit semantici debilitanti. Nel confronto dei nomi, l’informazione visiva (l’oggetto che deve essere nominato) è usata per attivare l’informazione fonologica (il nome) dalla memoria semantica a lungo termine. Ad ogni modo in una normale conversazione la produzione della parola raramente avviene in un contesto linguistico limitato con forti suggerimenti visibili. Quindi le esigenze del contesto linguistico e la mancanza di suggerimenti visibili creano altre richieste cognitive. Per esempio produrre delle parole in una conversazione spesso richiede di ricordare quello che è stato detto e quello che si deve dire mentre si sta elaborando il discorso precedente. Un parlante che intende dire ‘ieri andai a trovare mia moglie in ospedale’ deve ricordare il referente ‘mia moglie’ quando dice appunto ‘ieri andai a trovare’. In aggiunta a tutto questo le conversazioni spontanee contengono molte menzioni ripetute degli stessi referenti perché la referenza anaforica ripetuta  (l’anafora è la relazione fra l’espressione linguistica e un’altra che la precede e ne determina il riferimento detta antecedente. L’anafora può essere sostituita da elissi, da pronomi. Esempi: ‘Gianna è arrivata? No non la vedo; Gianna è l’antecedente, la è la ripresa anaforica) è un importante parte del discorso coerente e ben strutturato in cui gli argomenti tipicamente abbracciano diversi modi di dire. Poiché ai parlanti è richiesto di conservare tutta questa informazione mentre elaborano il materiale sopraggiunto la produzione della parola nella conversazione è crucialmente dipendente dalla funzione della memoria a breve termine (la memoria che lavora: definita anche come l’abiltià a mantenere vari tipi di informazione durante le operazioni cognitive). Ciò aumenta la possibilità che un deterioramento della memoria a breve termine possa giocare un ruolo importante nel fare un discorso conversazionale vuoto. Giacché l’ipotesi del deterioramento si basa sul deficit nell’attivare l’informazione lessicale si può predire un forte legame fra discorso vuoto e anomia. Questa predizione implica una forte  correlazione fra le misure del discorso vuoto e il rapporto dei pronomi in tutti i riferimenti nominali.e le proporzioni dell’anomia come quella dell’esecuzione del compito di dare il nome ad un disegno o foto.

 

 L’ipotesi del deterioramento della memoria a breve termine postula che un immagine che si deteriora sempre più nella memoria a breve termine è la causa principale del discorso vuoto nel paziente affetto da Alzheimer e così preannuncia l’esistenza di un legame fra un discorso vuoto ed un peggioramento della memoria a breve termine. Da questa previsione le misurazioni del discorso vuoto  come il rapporto dei pronomi in tutte le referenze nominali dovrebbero essere correlate alle misurazioni dell’esecuzione della memoria a breve termine come il periodo dell’ascolto. Coloro che assistono questi pazienti (caregivers) dovrebbero risistemare il loro vocabolario usando semplici, concrete, specifiche parole per poterli aiutarli nella comprensione verbale evitando per esempio i seguenti termini: questo, questa, lui, lei. E tutto sommato questo consiglio non è difficile da seguire poiché gli stessi ‘caregivers’ aumentano la loro ridondanza lessicale ripetendo parole pertinenti. Inoltre i caregivers che non sono affettivamente coinvolti con i pazienti (medici, infermieri, operatori addetti alla assistenza, badanti straniere) necessitano di essere istruiti in modo tale da usare espressioni specifiche e informative anche quando queste espressioni sembrano innaturali e ridondanti. Quello che sembra innaturale a gran parte dei parlanti può diventare un mezzo efficace per facilitare la comprensione di una persona che ha problemi di memoria.

 

La Pragmatica e la conversazione

     Oggi non si può prescindere dal contesto situazionale in cui avviene la comunicazione: sono molto importanti il tempo, il luogo, per essere più chiari, quello che conta é la posizione e lo spazio percettivo degli interlocutori, il sistema delle conoscenze del ricevente ecc. Una frase detta da un adulto, da un bambino, o da un’amica, o da un’estranea, inserita o non inserita, in un dato contesto può avere altri diversi significati e qualche volta, persino, significati opposti.

Gli enunciati: “QUI SI VENDONO ANCHE QUOTIDIANI INGLESI” o “NON SI ACCETTANO ASSEGNI”, “NON SI FA CREDITO”, possono avere un valore di semplice informazione o in un’edicola, oppure, possono implicare anche “divieto nascosto” che sembra più un cortese invito a non chiedere favori, quali appunto, “IL CREDITO” o “IL PAGARE LA CONSUMAZIONE CON UN ASSEGNO”. Secondo le situazioni, la frase può avere un valore di principio generale (CARTELLO) o può essere legata alle circostanze del momento (CHIEDERE UN FAVORE ecc.). Il cartello può avere due significati:

a)    può fungere da ‘informazione’ se esposto in una

edicola;

b)    invece se esposto in un bar o ristorante può mostrare

una falsa cortesia e disponibilità;

 Ad ogni modo, in ogni contesto, c’é un sistema di attese che riguardano le possibili reazioni del ricevente, per esempio, per lo straniero in vacanza, la gioia di poter trovare i quotidiani nella sua stessa lingua, o, amarezza e delusione nel constatare la poca credibilità rivolta sia al cliente che frequenta spesso il locale sia al cliente occasionale. Da ciò si evince che la comunicazione é una forma particolare di condotta. I diversi modi di condotta, come si noterà nello schema seguente, si delimitano a vicenda.

                         SCHEMA

 

             

 
 

 

 

 

 

 

                                                                    

  La disciplina detta PRAGMATICA si occupa dei rapporti fra lingua ed i contesti situazionali studiando gli usi comunicativi reali basandosi, in particolare, sulle intenzioni del parlante. In questo senso, si avvicina molto alla SOCIOLINGISTICA e alla LINGUISTICA TESTUALE, vale a dire, considera la lingua sia come un’attività condizionata dal punto di vista sociale, sia pianificata in modo tale da conseguire certi obiettivi. Il parlare é un’azione linguistica e quando gli uomini parlano, compiono degli ATTI LINGUISTICI. Nel descriverli ed interpretarli, é necessario mostrare nel contempo, le intenzioni ed il contesto che li accompagnano. I linguisti che si interessano di PRAGMATICA studiano il parlante in “azione linguistica” lasciando in secondo piano il sistema della lingua visto autonomamente (che é invece basilare per “gli strutturalisti”).

    Chomsky e Saussure si interessavano agli aspetti sistematici della lingua, tralasciando il suo concreto realizzarsi come interazione fra individui concreti e in date circostanze. Il linguista Wunderlich Dieter riassume in una serie di domande i principali fini di questa nuova branca della linguistica: come si stabilisce un rapporto con un’altra persona tramite una espressione linguistica? Come si mantengono i rapporti già esistenti? In che modo si può agire sui pensieri e comportamenti di altri individui? In che senso espressioni linguistiche possono essere intese come “tipi specifici” di azione? Quali sono le conseguenze che risultano di volta in volta per il partecipante della comunicazione? In che modo ci si rapporta alla realtà della natura e della società e, dei processi di lavoro interposti dalla tradizione, dall’educazione e dall’esperienza?

La linguistica pragmatica si propone fra i suoi obiettivi essenziali lo studio del dialogo. Di questo, vari sono gli scopi che debbono essere primariamente distinti: “comunicazione”, “domanda”, “risposta”, “preghiera”, “saluto”, “esortazione”, “offerta”, “minaccia”, ecc.

Da tener presente é la distinzione fra ciò che é effettivamente detto nel discorso (l’esplicito) e ciò che é sottinteso (l’implicito). Degni di nota sono “atti linguistici indiretti” come, per esempio, i commenti sul tempo che servono per stabilire, soprattutto, un contatto con una persona che non si conosce ancora bene, ci aiutano a comprendere le sue intenzioni. Il filosofo Austin sostiene che esistono accanto alle frasi affermative anche frasi-azioni (dall’opera “HOW TO DO THINGS WITH WORDS” pubblicato dopo la morte, nel 1962) che se pronunciate fungono esse stesse da azioni. Tale teoria é stata sviluppata da Searle nel saggio “SPEECH ACTS”, nel 1969.

Per esempio, se io dico, “Io dichiaro voi marito e moglie”, “Io ti prometto di studiare”, “Ti giuro di averlo visto”, “Ben tornati a casa mia”, ecc. nel pronunciare queste frasi compio contemporaneamente delle azioni, vale a dire, matrimonio, giuramento, promessa, saluto, ecc.

Tutto questo porta una netta distinzione fra tre tipi di atti: “l’atto locutorio”, in cui si dice solo un qualcosa, per esempio, “Ugo é un villano”; “Ugo é un parassita”; “l’atto illocutorio”, dove invece, nel fare qualcosa si compie l’azione “Ti prometto di punire Ugo”, “Ti giuro che lo condannerò”, per essere più precisi, l’atto illocutorio secondo Austin, dà luogo a delle trasformazioni accettate dai partecipanti all’azione linguistica, trasformazioni che concernono le modalità di “potere”, “dovere”, “sapere”, caratterizzanti le relazioni fra gli interlocutori. L’atto “perlocutorio”, invece, é tale da provocare un effetto su chi ascolta; sono da segnalare, in questo caso, frasi necessari a convincere, minacciare, incoraggiare, ecc.

 

                                

   

Atti linguistici indiretti : Le Implicatura Conversazionale

Quello che noi intendiamo comunicare, molte volte non viene enunciato in modo indiretto o formulato in modo esplicito. Per esempio nel seguente dialogo:

                     a: Vieni con me al mercato domani mattina?

                     b: Devo terminare la tesi di laurea.

Non viene data una risposta negativa, bensì il parlante maschio o femmina ricorre ad una spiegazione sul perché non può accettare l’invito. “Devo battere la tesi di laurea”, impegno a cui non può fare assolutamente a meno, e quindi non rimane altro che rinunciare ad uscire. In molti casi, l’atto linguistico indiretto é considerato come una forma di cortesia. Per un corretto svolgersi della comunicazione quotidiana é di basilare importanza sapere quali sono le conoscenze pragmatiche intorno agli atti linguistici indiretti:

               -Mi sai indicare la strada più breve per raggiungere “Bibione Lido”

               -Mi puoi mostrare il bagno?

In queste due interrogative non é per nulla esaustiva una risposta limitata al “si verbale” e quindi non seguita dalla spiegazione relativa al percorso più breve per arrivare a Bibione con l’aiuto di una cartina geografica, oppure puntare un dito allo scopo di indicare la porta del bagno. Non stiamo in effetti affrontando domande sulle conoscenze (Sai) o le capacità (Puoi) dell’interlocutore. L’interrogativo é solamente un modo convenzionalizzato necessario ad esprimere una richiesta in forma cortese. Non sempre riusciamo a stabilire se si tratta di un atto linguistico diretto o indiretto. Ci troviamo in un treno dove sia vietato aprire il finestrino(per motivi di sicurezza) e ci venga rivolta la domanda: “Le dispiace se apro il finestrino?”. Se ritengo che questa domanda sia un “atto linguistico diretto” sarò autorizzato a rispondere con un semplice “si”(se il finestrino aperto mi dà realmente fastidio). Altrimenti, se lo considero come un atto indiretto, (nel senso di “Le comunico che aprirò il finestrino”) dovrò semplicemente rispondere con un no. Perciò da come abbiamo visto sopra, gli atti linguistici indiretti devono sempre richiedere un lavoro di interpretazione del messaggio. Grice, filosofo inglese, ha elaborato una serie di principi che regolano tali processi interpretativi. Il principio di “cooperazione” fra parlanti può essere riassunto nel seguente modo:

              “Il tuo contributo alla conversazione sia quello che é richiesto  al momento opportuno dagli scopi o dall’orientamento del  discorso”.

                 Da questo principio si stabiliscono quattro massime che    governano la nostra conversazione.

Massima di quantità: dà un contributo tanto informativo quanto é richiesto dagli scopi dello scambio.

Massima di qualità: tenta di dare un contributo vero e quindi non dire cose false o per le quali non hai prove adeguate.

Massima di relazione: sii pertinente.

Massime di modo: sii perspicuo e quindi evita di essere oscuro, prolisso, ambiguo e confuso.

 Questi principi sono non di rado violati consapevolmente per realizzare una implicatura conversazionale. Le violazioni per esempio della massima di quantità sono dovute spesso a forme di cortesia più che di vera reticenza, per esempio, ad un professore di matematica si chiede un giudizio sulla validità dello studente Rossi Ugo, la risposta dell’insegnante potrà essere: “E’ un ragazzo intuitivo” : noi sappiamo che l’intuizione é un’ottima qualità per la matematica ma non é sufficiente per asserire che sia un bravo studente. Infatti se il docente non parla di altre caratteristiche del giovane, può lasciare intendere che ci siano delle carenze comportamentali. La massima di qualità può essere tralasciata nel caso in cui il chirurgo non riveli al paziente tutta la gravità della malattia. Per cambiare ripetutamente discorso, si ricorre alla massima di relazione per salvare una situazione alquanto imbarazzante, discorso che sarà indirizzato verso temi generali che non riguardano da vicino nessuno dei partecipanti alla comunicazione:

          (ad un incontro a baseball):

            -Posso sapere per quale squadra tifi?

–          (silenzio imbarazzato)

–          (rivolto ad entrambi) Che caldo fa oggi!

La massima di modo non viene spesso rispettata nei testi poetici: non é facile l’interpretazione, per esempio, di espressioni come “bello di forma e di sventura” del Foscolo.

   Le violazioni sono uno sfruttamento comunicativo delle stesse massime. Colui che ascolta presuppone che il parlante cooperi continuamente nella conversazione e, nel caso in cui, si trova di fronte ad una incongruenza o mancanza ricerchi nelle parole dell’altro un senso più nascosto (covert meaning). Nel mondo contemporaneo, la comunicazione conversativa ha avuto un grande sviluppo anche nella vita pubblica oltre che nel privato. Il lavoro di gruppo, le interviste, i dibattiti, le tavole rotonde, i talk show, le analisi psicologiche e psicoanalitiche, i traffici ed i commerci , le relazioni internazionali e interrazionali hanno moltiplicato le occasioni di dialogo fornendo larga messe di materiale per gli analisti della conversazione alla ricerca di strutture, regie, forme,e al limite, regole di comportamenti linguistici collegati a queste occasioni. Nel prossimo capitolo tratteremo ampiamente della teoria conversazionalista applicabile ai pazienti affetti dal morbo di Alzheimer.

Capitolo VI

1.La teoria Conversazionalista e il mondo dei pazienti Alzhimer.

1.a Il mondo attuale e i mondi possibili

Il mondo attuale è il mondo dove tutto può essere detto nella logica del vero e falso, della storicità degli eventi, della continuità attraverso il tempo di una persona e quindi includendone le contraddizioni. Mia madre (che purtroppo è deceduta nello scorso luglio non per la malattia di Alzheimer ma in conseguenza alla frattura del collo del femore), che si chiamava Bruna, sosteneva di vivere a Seren e poi a Mestre, di avere 3 figlie, la minore studiava a Padova e viveva però a Feltre, poi dopo alcuni istanti aggiungeva che la stessa figlia viveva a Mestre e insegnava. Ci troviamo di fronte a delle asserzioni che nel nostro mondo attuale sono considerate contradditorie e ne spiego il perché. Il mondo attuale è formato da persone identiche storicamente continuanti per cui non può essere vero che una persona, in questo caso mia madre Bruna, possa vivere contemporaneamente a Seren e Mestre ed avere una figlia che studia a Padova e abita a Feltre e contemporaneamente vive ed insegna a Mestre. Perciò in riferimento a questi esempi su mia madre discende, sempre nella logica del mondo attuale, ‘l’accusa’ di contraddizione, di fare confusione, o di disorientamento spazio-temporale. Nel caso dei mondi possibili o mondi funzionali, creati da frammenti che possono essere più o meno estesi dell’universo del discorso secondo la logica del possibile, abitati da persone discontinuanti, non uguali, la cui esistenza è autenticata dal lessico del testo indipendentemente da ogni verifica semantica extratestuale. Riguardo Bruna che sosteneva di abitare a Seren poi poco dopo aggiungeva di vivere a Mestre, poi parlando della figlia, sosteneva che studiava a Padova e viveva a Feltre, precisando poco dopo, che abitava ed insegnava a Mestre, si costruiva nella mente  4 mondi possibili in ciascuno dei quali successivamente andava ad abitare una Bruna disidentica, non identica alle Brune che andavano nello stesso tempo ad abitare gli altri mondi differenti possibili. Ecco che in questo modo cade l’imputazione di ‘contraddizione, confusione, disorientamento, per ciascuna delle  Brune disidentiche che abitavano part time i singoli differenti mondi possibili che sarebbe invece applicabile ad una Bruna esaminata dalla prospettiva di un unico mondo attuale in cui verrebbe fatta abitare in modo continuante. Ecco l’importanza dell’universo del discorso di un paziente affetto da Alzheimer in una prospettiva dei mondi possibili anziché nella prospettiva del mondo attuale.

2. Comunicazione e Conversazione

La comunicazione ha in verità una estensione infinitamente più vasta del linguaggio e della conversazione: gli animali comunicano usando segni corporei, tattili, olfattivi visivi, gli uomini usano la conversazione composta di parole, un uso minimo in confronto al campo delle loro comunicazioni non verbali. Il conversazionalismo sostiene che la conversazione è un fenomeno individuale che abita il mondo delle parole. Solo nel mondo della parola si ha una conversazione ovvero la produzione di elementi discreti, le parole, organizzate in proposizioni che ruotano attorno un predicato rette dalle regole grammaticali. Al contrario la comunicazione è la trasmissione fra individui, umani o animali, e tra strutture meccaniche e elettroniche di informazioni all’interno di un sistema retto dalle leggi del simbolo della logica, non della grammatica. Quindi per conversare necessitiamo della grammatica , mentre per comunicare della logica. Infatti possiamo conversare anche quando diventiamo incoerenti vele a dire abbiamo perso la funzione logica come nel caso di Pazienti affetti da demenza tipo Alzheimer o nel caso di afasie dove viene persa la funzione linguistica.

3. Gli scambi di parole che avvengono con i pazienti Alzheimer

Quando parliamo con uno di questi pazienti abbiamo l’impressione di capirlo e nel contempo di non capirlo. Ciò dipende dal fatto che nel processo della malattia non tutte le funzioni concernenti lo scambio di parole si modificano nello stesso modo. Infatti alcune di esse si deteriorano precocemente altre invece sembrano rimanere relativamente illese in mezzo alla dissoluzione generale. Nella conversazione che io avevo quotidianamente con mia madre (il cui stadio di malattia era live-moderato) ho cercato di analizzarla dopo averla riscritta riferendomi in particolare alla coesione del testo, alla coerenza, ai motivi narrativi, al tasso dei nomi, il numero delle parole per singolo turno verbale, alla cortesia conversazionale. Parlando in particolare della coesione del testo opposta alla coerenza del testo possiamo sostenere che la coesione testuale dei turni verbali è definita dai legami grammaticali, formali, fra gli elementi del testo, dai rapporti di coordinazione e subordinazione tramite congiunzioni, accordi delle categorie dei nomi di genere maschile, femminile, di numero singolare o plurale, dal modo e tempo verbale e nell’insieme tutto questo dona alle proposizioni un aspetto corretto a livello formale, insomma un aspetto di frasi ben formate. Nell’insieme la conversazione con mia madre mostrava che la funzione della coesione testuale era ben conservata (anche se le frasi impiegate erano di semplice struttura).

Riferendoci  alla coesione testuale, essa viene normalmente definita in base ai legami sintattici e logici fra i significati delle parole di un testo. La coerenza, in quanto proprietà logica, è attribuita al testo il quale può apparire illogico o incoerente o addirittura incomprensibile se si considerano certi punti di vista. E quindi mentre per il paziente Alzheimer la coesione testuale è abbastanza ben conservata e per un lungo periodo di tempo, la coerenza testuale è di frequente più deteriorata dando così l’idea a noi che conversiamo con questi pazienti che è l’andamento della funzione di coesione testuale, ben conservata, che ci dà quell’impressione di comprenderlo. Allo stesso modo è l’andamento della funzione di coerenza testuale alquanto compromessa che ci suggerisce l’idea di non poter accedere alla comprensione della conversazione che risulta incoerente (questo risultato lo si può ottenere dalle trascrizioni delle conversazioni giornaliere che avvengono con questi pazienti, trascrizioni usate semplicemente riportando il dialogo in un quaderno oppure riscrivendo il dialogo dopo aver ascoltato attentamente la registrazione).

Parlando di due altre funzioni importanti ci riferiamo ora a quelle della negoziazione dei motivi narrativi e delle regole della cortesia conversazionale. Per motivi narrativi s’intendono gli elementi di significato minimi di una proposizione come per esempio: ‘Vivo a Seren’ o ‘no un momento abito a Mestre’ (nei pazienti Alzheimer sfortunatamente di frequente i motivi narrativi non hanno una continuità logica fra di loro). Quando fra due conversanti mancano i legami fra i motivi narrativi dei turni adiacenti ci troveremo di fronte all’assenza di ‘negoziazione dei motivi narrativi’. Comunque la cosa rilevante da tener presente nelle conversazioni con malati di Alzheimer riguarda la conservazione delle regole di cortesia che si riferiscono al dare e prendere i turni verbali a tempo debito. E questo avviene anche quando il paziente prende lui stesso la parola (osservando però la regola di cortesia ‘del suo turno’) ma nel rispondere non è in grado di riferirsi in alcun modo al contenuto, al motivo narrante, di quello che l’interlocutore ha appena detto nelle sue parole precedenti. Esempio: Interlocutore (conoscente) ‘Dove abita?’ Paziente (mia madre) ‘Ho tre figlie a Feltre’. Interlocutore ‘dove vive?’ Paziente ‘Vivono a Feltre’ In queste due domande prende il turno verbale a suo tempo debito rispecchiando la regola di cortesia conversazionale, utilizza lo stesso verbo impiegato dall’interlocutore e non è però esauriente nella risposta in quanto non focalizza il nocciuolo della domanda.

Possiamo sostenere fin qui che il paziente Alzheimer parla bene ma non si fa capire; intrattiene buone conversazioni non trasmettendo informazioni comunicative: in breve sa conversare ma non sa comunicare quindi ha o conserva la competenza conversazionale ma non ha, o perde, quella comunicazionale.

La teoria pragmatica cognitiva vede la patologia dell’Alzheimer in termini di mancanza e di disabilità, la mancanza della competenza perduta della comunicazione e disabilità nell’esercizio della comunicazione prima attuata in modo adeguato. Grazie alla riabilitazione cognitiva che include la terapia dell’orientamento della realtà, dell’esercizio della memoria, la terapia della verifica e anche quella della reminescenza, é vista nell’insieme come la tecnica fondamentalmente attiva necessaria ad adattare il paziente al mondo attuale tramite ripetuti esercizi in condizioni facilitanti, forse, in grado di restituire efficienza alle funzioni cognitive con riferimento particolare alla memoria, all’orientamento spaziale, al linguaggio stesso, tutte funzioni colpite dalla malattia.

L’approccio conversazionalista rivolto ai pazienti affetti dal morbo di Alzheimer si muove su tutto un altro piano e qui ne tracceremo l’algoritmo (o per essere più precisa: un insieme finito di comandi [istruzioni] che producono una sequenza di operazioni in grado di risolvere uno specifica problema) in determinati passaggi o fasi che sono insieme teorici, metodologici, tecnici, etici e culturali. Si ha quindi la prima scoperta della dissociazione modulare fra conversazione e comunicazione  con la conseguente conversazione senza comunicazione che ci permette di scoprire con una chiarezza ben precisa lo scopo della conversazione che rimane fortunatamente illesa nel caos delle altre funzioni della comunicazione. La seconda fase riguarda la scelta del metodo ma anche dell’etica in cui si considera il linguaggio non come un meccanismo efficiente o meno nel suo ‘farsi e disfarsi’ ma piuttosto come forme degli stili di ciò che l’individuo dice (sostiene/afferma) in condizioni diverse della sua stessa vita. In pratica ci si prefigge di occuparci non tanto della patologia della comunicazione bensì dei modi di dire della conversazione. La terza fase si rifà all’individuazione del motivo narrativo, da parte del conversante, nella conversazione del paziente. La quarta fase ha il compito di restituire al paziente il motivo narrativo (che corrisponde all’unità minima di significato di una frase come parte dell’enciclopedia di un linguaggio) del suo ‘dire’. La quinta ed ultima fase non corrisponde altro che alla ricorsività implicita o esplicita delle 4 fasi precedenti.

Al motivo narrativo il conversante giunge grazie ad una serie di parafrasi in grado di riassumere le parole del testo del paziente. Perciò il fatto di individuare il motivo narrativo ci porta da una parte, ad effettuare un passaggio tecnico di un algoritmo e dall’altra di disporre di ‘una etica’ del conversante in grado di accettare nella visione delle  parole di un parlante (diciamo visione che è più o meno accettata) quello che lui stesso (ovvero il parlante) ‘consegna’ (usando un linguaggio metaforico) con o senza intenzione cognitiva di effettuarla realmente, nel lessico e nella grammatica del suo testo. I motivi narrativi li abbiamo già scoperti nelle seguenti frasi riportate sopra: ‘Vivo a Seren’, ‘Ho tre figlie’. In questo modo una volta avendo individuato il motivo narrativo (uno dei motivi narrativi), il conversante (la conversante nel rapporto con mia madre sarei io stessa, la ‘caregiver’) sarà in grado di restituirlo usando forme più semplici possibili, termini concreti , ricorrendo al prestito di molti termini già impiegati dallo stesso paziente. Così seguendo questa opzione nascosta, di eco, il conversante sarà distolto dalle tentazioni di fare domande, di confrontare l’interlocutore evidenziando i possibili errori attinenti a cronologie inesistenti o situazioni che portano alla contraddizione, accettando, con semplicità e senza alcuna difficoltà, di condividere con lui/lei le ambiguità, o le  confusioni senza esigere una eventuale chiarificazione o risoluzione, persino nel momento in cui deve restituire al paziente significati possibili delle sue parole che tuttavia il conversante non riesce a cogliere in modo chiaro e distinto o a causa della non-esistenza o a causa dell’inacessibilità ad esse. Nel caso di mia madre che di fronte alle domande di un nostro conoscente afferma:

Conversante: Dove vive? Mia madre Bruna: Vivo a Seren.. silenzio e dopo alcuni istanti: Vivo a Mestre. Vivo a Feltre. Conversante: un’altra volta il conversante rifà la domanda in modo quasi uguale cambiando il verbo: Dove abita?Mia madre Bruna: Le mie tre figlie abitano a Feltre. Conversante: Ah anche le figlie abitano con lei?!

Analizzando questo breve dialogo notiamo che il conversante restituisce il motivo narrativo dell’errore utilizzando il verbo impiegato da mia madre e l’interiezione in una forma di probabilità universale evitando giudizi individuali ed eventuali correzioni pedagogiche. Seguendo questo esempio noteremo come la restituzione di un motivo narrativo faciliti l’accesso al mondo possibile. L’importante è che il conversante, sia questi conoscente o caregiver, ignori ogni motivo narrativo suggerito dalla logica del mondo attuale o del mondo in cui noi (non malati) viviamo. E che invece riesca a far entrare per esempio mia madre e altri come lei in un mondo possibile abitato da persone che possano dire di vivere a Feltre, Mestre, Seren, contemporaneamente magari sbagliando oppure no giacché non ci sono semafori che fermino il tempo in questi mondi. Quindi anche mia madre in tre turni verbali in successione (infatti prima di parlare ella scruta il conversante per capire se spetta o non spetta a lei continuare a parlare e lo comprende dalla espressione del volto e dai gesti dello stesso conversante) costruisce tre mondi possibili differenti dove vivono 3 Brune disidentiche: una che vive a Seren, una che vive a Feltre ed una che vive a Mestre e spetta al conversante portarla ogni volta nel mondo fittizio appena aperto restituendoli motivi narrativi adeguati,  prima: ‘Vive a Seren ’; poi: ‘Quindi lei vive a Feltre’ ed infine ‘ Lei vive a Mestre’. Quindi possiamo sostenere che questo progetto terapeutico inaugura la cultura dell’abitare il labirinto in cui il paziente Alzheimer sembra essersi perduto e il nostro compito consiste nell’andare là dove si trova piuttosto che obbligarlo a seguirci dove noi ci illudiamo di trovarci.

 Concludiamo riassumiamo questa parte affermando che l’Alzheimer è una malattia e non una fase evolutiva dell’esistenza. La conversazione, qui presentata, viene vista più come una terapia  meglio definita come la terapia della pratica conversazionale il cui oggetto primario è lo scambio di parole degli stessi pazienti presi in esame nei termini di una conversazione senza comunicazione. Il compito primario è quello di far sopravvivere o di ampliare la funzione conservata del linguaggio, vale a dire, la conversazione che è considerata come una risorsa. L a tecnica conversazionale basilare riguarda la restituzione dei motivi narrativi dei pazienti: i conversanti provano, nei loro turni verbali di parole, a restituire ai pazienti quello che quest’ultimi hanno detto usufruendo di parole semplici e concrete. Si tratta il più delle volte, di parole impiegate dagli stessi pazienti, senza far loro domande o senza ingiunzioni pedagogiche. Il che implica andare là dove si trovano i malati, nei mondi possibili indicati dalle loro parole piuttosto che volerli portare dove noi pensiamo di trovarci. Con questa tecnica della restituzione dei motivi narrativi si sono raggiunti ottimi risultati che riguardano l’allungamento dei turni verbali  e dell’aumento dei sostantivi dei turni stessi che si verificano dopo 4 o 5 conversazioni. La restituzione dei motivi narrativi che cercano di seguire i pazienti e non di anticiparli contribuiscono a ridurre i comportamenti di fuga, di ostilità, di agitazione ed aggressività che a volte sono correlati con interventi invasivi degli spazi personali dei pazienti stessi. Essere là dove sta l’altro entrando nel suo mondo seguendo i guizzi ed i bagliori di una composizione scomposta. Questo infatti risulta essere il senso del legame debole rendendo così significativa e coinvolgente una relazione seppure nella frammentarietà dell’esperienza che si sta vivendo. E quindi questa terapeuticità migliora la funzione  (chiamata per l’appunto ‘conversazione’) Inoltre provvedere alla riduzione del danno proprio di una comunicazione forzata è di per sé terapeutico.

Analisi di una conversazione fra me e mia madre avvenuta il 22 ottobre 2002 alle 8.30 in attesa della visita dell’altra figlia, mia sorella Mara, che abita e lavora a Feltre.

Mia madre stava aspettando l’arrivo di sua figlia Mara. Erano le 8.30 di mattina e dopo aver fatto colazione mia madre che si chiamava Bruna si apprestava alla finestra per vedere se arrivava. Io cercavo di calmarla invitandola a sedersi a tavola in cucina cercando, per farle passare il tempo, di instaurare una delle tante conversazioni quotidiani giacché eravamo io e mio marito i suoi caregivers.

1.a A(ovvero, io, Antonella la sua terza figlia): Ma dai mamma non preoccuparti sono appena le 8.35, non sono trascorsi nemmeno tre minuti dall’ultima volta che sei andata alla finestra per vedere se arriva.

1.b B(Bruna era il suo nome): No, dai asseme star, no te vede che no la riva (a volte passava dall’uso della lingua italiana a quello del dialetto feltrino). Son in pensiero (Lasciami in pace, non vedi che non arriva. Sono in pensiero)

2.a A: Che pensiero?

2.b B: Chissà se la conos la casa, no le mai vegnesta qua (chissà se conosce la casa, non è mai venuta qui). [In realtà ciò non corrispondeva alla verità giacché mia sorella Mara veniva di frequente a farle visita. Quello che più faceva stare male entrambe era proprio questa sua smemoratezza].

3.a A: Dai stai calma e siediti qui vicino a me che parliamo un poco. [Bruna dopo aver camminato più volte verso la finestra finalmente si decide a sedersi]

3.b B: Parlone de che? (Parliamo di che cosa?).

4.a A: Dai dimmi del tuo lavoro (esortazione)

4.b B: Cosa vutu saver? (che cosa vuoi sapere?)

5.a A: Se lavoreresti ancora?

5.b B: Si, ho lavorà tant e lavore anche ades, spette la Mara che la deve vegner a torme. Deve andar su poh (interiezione) (Sì ho lavorato tanto e lavoro anche adesso. Aspetto la Mara che deve venire a prendermi. Devo andare su ..poh..)

6.a A: Su dove?

6.b B: Su poh.. là!….dove che abite e che lavore. Te sa ti dove. Proa a dirme me el posto mo  (su poh…là dove abito e lavoro. Sai dove. Prova a dirmi il posto)

7.a A:  E che fai?

7.b B: ho una fabbrica 100 operaie con me, lavoro per un americano.. poreto (poverino) è morto.. (silenzio) mal al cor in areplano.

8.a A: Ah e dopo?

8.b B: Cosa dopo? Sguardo assente preoccupato.

9.a A: Cosa pensi?

9.b B: Non arriva, vedi che …Faccio cosa, fae che, dove vado a dormire? Dimmi dai dove dormo?

10.a A: Non preoccuparti non dormi fuori in strada no.. non preoccuparti (ripetitiva per rassicurarla)

10.b B: Mostra dove dormo (da notare che erano le 9.00 di mattina e si era alzata dal letto da appena un’ora: si era già dimenticata la collocazione della sua camera,  camera in cui usufruiva  da 4 anni)

11.a A: Ma dai su, ti sei appena alzata, dai su la camera è in fondo al corridoio (gliela mostrai indicandola)

11.b B: Se tu segura (sei sicura), non la quella ma dabas (da basso)

12.a A: Stai calma Brunella (vezzeggiativo per dimostrarle affetto) non agitarti!

12.b B: Che ora è? Vedi non arriva…

13.a A: Chi?

13.b B: Quella là di Feltre, viene a prendermi

14.a A: Quella di Feltre è tua figlia Mara

14.b B: Quale figlia? No mia figlia non può lavora e non ha tempo….mi (io) son in pensiero …. (guarda l’orologio preoccupata)

15.a A: Ah, quante figlie hai?

15.b B: Tre, una in America, una a Feltre, una studia a Padova abita a Feltre insieme.

16.a A: E io chi sono?

16.b B: Non so, non ti conosco…

17.a A: Sono tua figlia più piccola Antonella, e abito a Mestre ma non importa…

17.b B: Ma dai va là, e l’altra Antonella che vive con me a Feltre? Studia a Padova…

18.a A: Forse hai ragione ci sono altre Antonella, una che studiato a Padova e l’altra che é Mestre. Tu vivi a Mestre con me.

18.b B: Devo andare via e non l’arriva….

19.a A: Sta calma arriva, arriva…

19.b B: Chi elo che deve arrivar (chi deve arrivare?)

20.a A: Tua figlia Mara….

20.b B: Va là, là non viene il lavoro…(pensa un poco) e aggiunge devo andar lassù in città che ghe ne na siora che me spetta….(rivolgendosi a me preoccupata) quella la non la vien pì a torme (quella la non viene più a prendermi), deve andar su, na tosa la me spetta (devo andar su una ragazza mi aspetta), il vestito le pronto, devo stirarlo, la siora la vien a torlo (il vestito è pronto, devo stirarlo, la signora lo viene a prendere)

Finalmente arriva mia sorella Mara.

21.a A …E’ arrivata la Mara…

21.b B: (rivolta a mia sorella con sollievo e felice) dove setu stata che no te rivea pì (dove sei stata che non arrivavi più)

Nuovo conversante (Mara)

21.c M(nuovo conversante): Buma (soprannome tipo vezzeggiativo) son qua po ghe n’era tante macchine, te sa ti che la strada da Feltre a Mestre le longa  (sono qua po c’erano tante macchine, sai che la strada da Feltre a Mestre è lunga)

22.b B: ma davvero setu a Feltre anca ti, ho na fia mi che abita e ha un negozio a Feltre (ma davvero sei anche tu a Feltre, ho una figlia che abita e ha un negozio a Feltre)

22.c M(nuovo conversante): ma mamma son mi quella fia che te parla, son la Mara, non te me conosce pì po? Usumaria (è un modo di dire per incoraggiarla e lasciar cadere il discorso)

Bruna continua a guardarla con uno sguardo incerto, come se stesse prendendola in giro.

Dopo aver bevuto un caffè decidono di andare a fare un giro a Mestre. Bruna rivolta a me:

23.b B: Ciao, bella, vae mi, te telefone quando che arrive là…(ciao, bella, mi vado, ti telefono quando arrivo là)

23.a A: Guarda che vai a farti un giro in città e poi torni..  beh ciao divertitevi

Dopo due ore ritornano a casa. Mia sorella si ferma ancora qualche minuto, il tempo di salutare me e mio marito. Poi io e mia madre l’accompagniamo alla macchina parcheggiata di fronte a casa. Mia madre rivolta all’altra figlia:

24.b B: Sta attenta con la macchina e salutami la Mara se la vedi..

24.a A: Ma mamma vardela ben mo, le ela, la Mara

25.b B: (rivolta ancora verso mia sorella che sta mettendo in moto la macchina) Beh, grazie per la visita salutami la Elvira l’altra mia figlia (e qui c’è una confusione nel nome e nel ruolo di questa persona la quale non è altro che la sua sorella minore dei 10 fratelli).

26.c M: ciao Buma stame ben satu se veden presto, bacioni. (ciao Buma stammi bene sai ci vediamo presto)

28.a A: Andiamo su a casa

28.b B: Ma no, non abite qua ma là pì avanti. La casa la è uguale ma in fondo là (indica una casa in fondo la strada)-

29.a A: La e questa qua. Varda mo che ghe ne Bepi (mio marito) in finestra…vetu? (è questa vedi che c’è Bepi in finestra?)

29.b B: Ma dai non me par (confusa e allo stesso tempo sorridente perché ha visto mio marito che è l’altro caregiver)

Saliamo le scale e finalmente ci sediamo sul divano. Silenzio per alcuni minuti poi…mia madre mi chiede:

30.b B: Ma e la Mara dov’ela ? Parché non le ancora vegnesta ….?

30.a A: Ma mamma l’hai appena vista, sei stata a spasso con lei in città e l’hai accompagnata alla macchina..(io un poco stanca..ma felice che sia andata a fare un giretto con l’altra figlia)

31.b B: (Sospirando) va là, va là, asseme che dorme….

La visita e la passeggiata in centro a Mestre l’hanno stancata molto al punto tale da farla dormire quasi subito. Io approfitto  e la lascio riposare uscendo dal salotto.

 Termina così una delle tante conversazioni quotidiane che io ero, dico ero perché purtroppo ora non c’è più, solita trascrivere in un quaderno per capire, per poter entrare nel suo mondo, a noi ‘persone normali’ inaccessibile perché non volevamo accederci, per vedere se le medicine che prendeva (era inserita nel PROGETTO CRONOS essendo lo stadio della malattia ‘lieve-moderato) la aiutavano a non perdere in poco tempo la funzione cognitiva che  riguardava l’uso di tutte quelle parole che solitamente usava. Non erano molte ma per lo meno le servivano a mantenere la conversazione viva, chiaramente entro i limiti dei mondi possibili, dei mondi comprensibili solo a noi caregivers che, in realtà,  ci dimenticavamo di avere di fronte un malato di Alzheimer. Per me, come figlia, era basilare poter dialogare anche se il dialogo non mi dava nessuna nuova informazione: mi bastava che si sentisse ancora viva, ancora una persona utile in questa strana società che normalmente non permette al demente (sia demenza tipo Alzheimer, che Pick o altre ancora) di farne parte, isolandolo completamente.

Nella insieme della conversazione con mia madre incluso quel breve dialogo avvenuto fra lei e  mia sorella, possiamo evidenziare i seguenti aspetti linguistici, grazie chiaramente al metodo del Conversazionalismo di Lai G., Gandolfo, Sedda L. (‘Coesione e Coerenza in Conversazioni con pazienti conversazionali’,2000, ‘Conversazione senza Comunicazione’, 2000, Tecniche Conversazionali, 23:52-65, ‘Malattia di Alzheimer e Conversazionalismo’, Estate 2000, Terapie Familiari) :

una bassa percentuale di nomi, un basso indice di riferimento con turni verbali relativamente corti in media 10 parole per turno (dobbiamo considerare comunque il mutamento della lingua: dall’italiano al dialetto), una discreta coesione testuale con frasi sufficientemente corrette a livello grammaticale (tenendo sempre conto della presenza di alcune domande/risposte in dialetto ‘feltrino’ con una sua propria grammatica e sintassi) ma una compromessa coerenza del testo se così lo vogliamo considerare. Quello che si deve evidenziare di più riguarda proprio la completa conservazione delle regole di cortesia conversazionale ovvero il dare e prendere i turni verbali a tempo debito, assente, comunque, nel 20% dei turni verbali la negoziazione dei motivi narrativi, ovvero, l’unità minima di significato di una frase come parte dell’enciclopedia di un linguaggio. Io non faccio nell’insieme molte domande a meno non siano necessarie per il buon andamento della conversazione (quando le chiedo quante figlie ha lo faccio esclusivamente a suo beneficio, in quanto voglio che diminuisca la tensione che è in lei per l’attesa della figlia che ritarda a causa del traffico e della lontananza). La lascio parlare rispettando il suo turno, la seguo nel suo mondo possibile e non pretendo che sia lei ad entrare nel mio ottenendo un dialogo più lungo del solito. Lo scopo basilare è quello di trascorrere un po’ di tempo insieme contente e tranquille piuttosto che ottenere delle informazioni o dei ricordi che non riesce lei stessa a dare.

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